La Stampa, 5 febbraio 2020
Intervista all’uomo che ha preso Bin Laden
L’uomo che ha preso Osama bin Laden è deluso, e ora persegue un’altra missione con la stessa caparbietà: «L’America sta perdendo i valori fondamentali che l’hanno resa davvero grande. È una vergogna, dobbiamo ricostruirli». L’ammiraglio William McRaven comandava le forze speciali Usa che il 2 maggio 2011 lanciarono il raid contro il capo di al Qaeda. Ha raccontato quella storia nel libro Fai la differenza, in uscita da Piemme.
Cosa pensò quando la Cia le disse che avevano scovato Osama?
«Non mi eccitai troppo, perché dopo l’11 settembre c’erano stati diversi avvistamenti sbagliati. Ma noi avremmo condotto la missione comunque, che fosse stato lui al 100%, o al 50%».
Non era preoccupato di gestire il raid?
«Ci sarebbe voluto parecchio tempo, prima che il presidente decidesse di dare l’ok, e molte cose potevano cambiare. Poi la Cia era alla guida, e non volevo dire che noi potevamo svolgere la missione meglio di loro. L’importante era farla bene».
Furono presentate quattro opzioni, ma lei scelse il raid.
«Diverse ipotesi erano state proposte da altri, ma l’unica che io avevo avanzato era il raid. C’erano il bombardamento massiccio e quello chirurgico, però il presidente non li voleva per il rischio di colpire civili innocenti, e l’impossibilità di provare che si trattava davvero di Osama. Perciò alla fine scelse il raid».
Era l’opzione più pericolosa per i suoi uomini: perché la voleva?
«Era pericolosa perché dovevamo andare sull’obiettivo, ma avevamo già fatto centinaia di operazioni simili. Avevo i migliori piloti di elicotteri al mondo, e i Seal erano tutti veterani. Sul piano tattico la missione non era complessa: volare dall’Afghanistan, entrare nel compound di Abbottabad, trovare bin Laden, metterlo sull’elicottero e tornare. Mi preoccupavano i rischi ignoti, tipo se l’edificio era minato, o bin Laden dormiva con una cintura esplosiva. Però sapevo che i miei uomini potevano farcela».
Come è stata l’interazione con Obama?
«Nei sei o sette incontri che abbiamo avuto, è stato sempre molto presidenziale. Poneva le domande giuste, ascoltava, era riflessivo e calmo. E soprattutto cercava sempre di fare la cosa giusta per il popolo e il Paese, mai per la politica. Non era un militare, ma aveva tutte le doti di leadership di un ufficiale esperto».
Mentre stava seguendo la missione dalla sua base in Afghanistan, il primo elicottero è caduto. Cosa ha pensato?
«Non ero molto preoccupato, perché oltre a guardare il video sentivo le comunicazioni dei piloti e dei Seal, ed erano tutti al sicuro. Non è stato un crash, ma un atterraggio duro. Avevamo un piano B, per la verità anche C, e lo abbiamo subito attuato».
L’umore nella Situation Room della Casa Bianca era diverso?
«Erano più preoccupati perché non sentivano la radio e non sapevano che c’era un elicottero di riserva a poca distanza».
È il momento della foto in cui si vede Hillary Clinton con la mano sulla bocca per la paura?
«Esatto. Ma poi hanno capito che sapevamo gestire la situazione».
Cosa ha provato quando i suoi uomini hanno trovato Osama?
«Erano passati circa 15 minuti dall’inizio del raid. Il comandante sul terreno ha chiamato la mia radio e ha detto: "Nel nome di Dio e della Patria, Geronimo, Geronimo, Geronimo". Era la parola in codice per bin Laden. Io però non mi eccitai molto. Ero ancora concentrato sulla missione, che non era finita, perché dovevamo riportare gli uomini a casa. E poi, prima di dire al presidente che lo avevamo preso, c’erano molte verifiche da fare per l’identificazione, tipo Dna, impronte digitali, misure, foto».
Gli uomini dovevano restare sul terreno 30 minuti, ma le chiesero di allungare i tempi perché volevano prendere dei computer.
«Non fui molto felice, ma capii che era intelligence importante. Passarono altri 18 minuti, i più lunghi della mia vita, perché intanto le forze pakistane si erano mobilitate. Dopo 48 minuti ordinai di prendere quello che potevano e andare via».
Cosa ha provato quando ha visto il cadavere di Osama?
«È difficile capirlo, ma non ero emozionato. Ero ancora concentrato sulla missione. L’aspetto emotivo l’ho compreso dopo».
Quando ha incontrato i famigliari delle vittime dell’11 settembre?
«Andai a New York a trovare i poliziotti. Ognuno aveva una storia sull’11 settembre, allora capii la dimensione della missione».
Lei ha partecipato anche alla cattura di Saddam.
«Ho avuto un ruolo minore, hanno fatto tutto i miei uomini».
Ha sospeso il suo giudizio sull’invasione dell’Iraq, perché?
«Non è andata bene. Se però nascerà un governo democratico, senza un dittatore che ammazza la sua gente, e sunniti, sciiti e curdi accetteranno di lavorare insieme, forse il giudizio cambierà».
Al Qaeda resta pericolosa?
«Non come l’11 settembre, perché abbiamo imparato a proteggerci, ma è ancora una minaccia, anche attraverso gruppi affiliati come Isis, al Qaeda nella penisola arabica, al Shabab».
Perché non avete preso al Zawahiri?
«Ha imparato la lezione di bin Laden e si è nascosto, ma la caccia continua e prima o poi faremo giustizia».
L’Isis può tornare?
«È un’ideologia estremista virulenta, perciò resta pericolosa anche senza un territorio».
Quanto grave è la minaccia in Libia?
«Il termine che noi usiamo per descriverla è "spazio non governato". Ha molte zone desertiche dove gli estremisti possono ricostituirsi e addestrarsi, e portare il terrorismo nel Mediterraneo e altrove. Perciò tutti i Paesi devono collaborare per fermarli».
Lei ha criticato apertamente Trump. Perché?
«Sono stato cresciuto con valori importanti: onestà, integrità, rispettare le persone con cui lavori, le altre culture e i popoli, fare la cosa giusta, morale, legale, etica. Questi valori sono anche la qualità più importante dell’America come nazione. Ci distinguono da Cina o Russia, e determinano come la gente ci vede nel mondo. Il presidente dovrebbe riaffermare la dignità della carica e garantire che tutti lo percepiscano come rappresentante dei valori che diciamo essere importanti. Non possiamo fare solo ciò che è buono per l’America, ma per il mondo. Credo che siamo scivolati lontano da questo, sotto la corrente amministrazione».
Cosa significa per lei fare la differenza?
«Penso a cosa abbiamo fatto in Europa e Giappone dopo la Guerra mondiale. Quell’altruismo è buono per noi, e per il mondo. L’idea di fare il bene per il bene è persa, e credo sia una vergogna».
Molti vorrebbero che lei si candidasse alla Casa Bianca.
«Non sono un politico, ma mi piacciono le policy. Se arrivasse l’amministrazione giusta, e il mio servizio fosse utile per le policy, certamente lo prenderei in considerazione. Mai dire mai».