la Repubblica, 5 febbraio 2020
La mia vita in quarantena in una Pechino fantasma
PECHINO — È sceso un velo di neve, a rendere tutto ancora più ovattato e sospeso. Guardo giù dalla finestra dell’appartamento, diciannovesimo piano, quasi nulla si muove. Due figurine nere, un’anziana e una bimba, che giocano ai giardinetti. Una macchina che passa lenta sullo stradone, un paio di pedoni. Non è la prima volta che vedo Pechino deserta. Ogni anno, quando arriva il Capodanno cinese, lavoratori e studenti tornano nei loro villaggi d’origine, e questa metropoli da 20 milioni di abitanti si svuota, diventa la scenografia di un film apocalittico. Stavolta però è diverso. Le feste dovrebbero essere finite, uffici e centri commerciali del quartiere tornare a brulicare di gente, le otto corsie della circonvallazione riaccendersi di traffico e clacson. Invece no: il virus ha spinto il governo a prolungare le ferie, a rimandare il rientro per rallentare il contagio. Il coronavirus ha fermato il tempo. Ha sospeso tutta la Cina, mica solo Wuhan, in un incantesimo chiamato quarantena.
E in quarantena ci sto pure io, da quando dieci giorni fa sono tornato da lì, l’epicentro del contagio. Rientrando al residence me lo sono tenuto per me, ho ignorato il questionario, facoltativo, che il personale aveva appoggiato sul tavolo all’ingresso: «Ha visitato aree con casi di polmonite negli ultimi 14 giorni?». L’isolamento però me lo sono autoimposto, andava fatto. Così da giovedì 23 ho iniziato a contare i famosi 14 giorni, il periodo massimo di incubazione, il tempo necessario per capire se mi sono infettato. Prima di volare a Wuhan avevo pesato il rischio, lo avevo trovato accettabile. Ma non avevo davvero realizzato che dopo aver lasciato Ground Zero quel rischio sarebbe venuto via con me, accompagnandomi per due eterne settimane.
Non è paura, anche se al quinto giorno è spuntata una tossetta secca. È qualcosa di meno e di più, una specie di distorsione del tempo. Perché ormai è fatta: l’atto decisivo, andare a vedere che succedeva a Wuhan, è compiuto. Ora tocca solo aspettare il verdetto, che rivelerà quella scelta come un rischio calcolato o una colossale cavolata. Un’attesa nuda che circonda di irrealtà ogni azione. È la solita casa, sono i soliti gesti, spegnere la sveglia, lavarmi i denti, scrivere al computer, bollire due uova, leggere gli avvertimenti che arrivano a noi stranieri, «evitare zone affollate». Ma è come se quei gesti non fossero miei, se li recitassi a una piccola, enorme distanza. Sono un diversivo che aiuta a tenere un ritmo, ma che non cancella la fragilità.
Forse per questo mi annoio, anche se il coronavirus mi ha riempito di lavoro. A questo punto confesso: la mia quarantena non è totale, ogni giorno mi concedo un’ora d’aria. Leggo che anche gli italiani evacuati da Wuhan ce l’hanno e mi sento meno in colpa. Verso l’ora di pranzo inforco berretto e mascherina, controllo che in ascensore non ci sia nessuno ed esco a fare quattro passi. È un modo per ritrovare una parvenza di socialità, fosse anche uno scambio di nihao. Ma è pure un tentativo di misurare il panico che arriva dall’Italia via social o telefono: quanto è grave, davvero, la situazione? Quanta paura ha la Cina? Quanta ne dovrei avere io? In mezzo a una città chiusa, in allerta massima, ogni particolare incoraggia o atterrisce. Tre giorni fa sono comparsi ovunque, anche all’ingresso del residence, dei vigilantes con termometri a forma di pistola. Li puntavano alla fronte annotando su un foglio numero di appartamento e temperatura, un Grande Fratello non proprio hi-tech. Il Partito ha chiesto a ogni comunità di stringere la rete di sorveglianza, pareva il preludio a un vero e proprio coprifuoco. Ieri però il vigilante era già distratto, sonnecchiava in guardiola, oggi neppure c’era. Resta il cartello: controllo temperatura.
Al supermercato studio subito la quantità di barattoli, al momento nessuna carestia in vista. Poi passo allo scaffale delle mascherine. Per giorni erano esaurite, brutto segno, ieri sono tornate in ben due varietà, grigia o nera, ed è bastato per un momento di felicità. Le poche persone in giro la portano tutte. Si cammina a distanza, più del solito, ma gli sguardi si incrociano, molto più del solito. Negli occhi degli altri cerco una qualsiasi tra le sfumature della paura, apprensione terrore o ansia, e forse loro le cercano in me. Trovo solo una composta prudenza, che non riesco a mettere in sintonia con il panico italiano. Certo, Pechino non è l’epicentro, al momento solo 200 contagi e un morto. E potrebbe anche essere che io stia cercando nel posto sbagliato, che i cinesi siano allenati o costretti a nascondere ciò che sentono. In qualche chiacchierata via chat intravvedo una materia oscura: «La situazione è grave», mi scrive in confidenza una conoscenza locale, lasciando intendere che invece è gravissima, che le autorità non la raccontano giusta. «Nei prossimi giorni tornano i lavoratori migranti dalle campagne, stai attento!». Anche qui si teme l’untore.
E forse la stessa materia oscura c’è anche in me, la sto solo ricacciando a fondo. La ragazza del panificio, quella che parla francese, mi saluta come sempre, ma quando allunga il sacchetto del pane noto che non ha i guanti. Lì per lì ci passo sopra, poi a casa rifletto mezz’ora se mangiarlo o buttarlo, parecchio irritato. Alla fine opto per il sì: in fondo se c’è un pericolo pubblico nel quartiere, quello sono io. È statistica.
Ci siamo quasi però: 12 giorni. Ancora due e la mia quarantena sarà finita. Non quella di Pechino: chiusa la palestra, chiusi i cinema, chiusa la scuola canadese dove gioco a basket. Perfino il ministero degli Esteri tiene la conferenza stampa quotidiana via chat. Ho una voglia matta di normalità, di gesti in cui affondare tutto me stesso, senza retropensieri: fare una corsa attorno ai laghi ghiacciati di Houhai, uscire per una birra in compagnia. Ma avrò il coraggio di prendere la metro, di entrare in un locale, togliermi la mascherina e bere? In fondo la quarantena mi ha abituato bene, mentre proteggevo gli altri da me, mi sono anche protetto da loro. Dalla paura. Fra due giorni saprò di non essere stato contagiato. E tornerò contagiabile.