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 2020  febbraio 04 Martedì calendario

Riscoprire Prévert, a 120 anni dalla morte

Ricorrono 120 anni dalla nascita di Jacques Prévert, il poeta francese che, oggi, la «maggioranza dei colti» – espressione sussiegosa e ridicola che abbiamo sentito pronunciare da un “colto” – aborre. Del resto come apprezzare un poeta obeso, trasandato, con l’occhio da guardone dei giardinetti, e che parla di innamorati? Che vendette centinaia di migliaia di copie con la sua prima raccolta di poesie, Paroles, del 1946? No, così non va monsieur Prévert. Il poeta oggi deve vestire tutto di nero, essere torvo, post-ideologico (e dunque ideologico) deve parlare di cose cruente ma con la calma di un anatomopatologo e, naturalmente, non deve vendere nulla. La povera, compianta Alda Merini, da quando è diventata un successo commerciale, è considerata, criticamente, poco sopra Federico Moccia. Per fortuna che all’Alda (la chiamiamo così perché l’abbiamo conosciuta personalmente, come tanti del resto) non gliene fregava nulla dei critici, era troppo impegnata a dettare al telefono versi a casaccio a persone (amici, amanti, parassiti, leccapiedi) che forse li trascrivevano forse se li ricordavano (bene o male) per poi farne libri che i grandi editori continuano a pubblicare: non raro caso di medianismo letterario. Oppure c’è, oggi, l’imitatore di Prévert, cioè la sua caricatura. Il poeta semplice che scrive poesie come un tizio conosciuto nell’ascensore bloccato ti parla per ammazzare il tempo. Per non parlare del poeta comico, del poeta buffone, del pagliaccio, genere che in Italia ha sempre avuto un suo pubblico. Ma lui, l’originale, Prévert, era tutta un’altra cosa. Non si scrivono sceneggiature sbalorditive come quella di Les enfants du paradis (Amanti perduti) o Le Quai des brumes (Il porto delle nebbie) senza del genio. Si ricordano Les feuilles mortes (Le foglie morte) e altri versi messi in musica da Kosma e cantati da Yves Montand e Juliette Greco, e allora ecco che Prévert scende dai piani alti della poesia lirica apprezzata dalla “maggioranza dei colti” per diventare quasi canzonetta. 

OLTRE SARTRE E CAMUS 
Una svalutazione, quella di Prévert, che nasce già lui vivente (morì nel 1977). Ostinatamente aggrappato alla sua poetica, non fu di moda quando in Francia furoreggiava l’intellettuale engagé, il dolcevita nero spettrale, Jean-Paul Sartre che si mandava a quel paese con Albert Camus, e Cioran che scatarrava su entrambi, per non parlare delle sbornie filosofiche importate dalla Germania (Husserl e Heidegger corretti al Café de Flore, cioè con le “parti difficili” tolte) e lo strutturalismo, e i saggi di Maurice Blanchot in Lineare A. Prévert, scandalo sommo a quel tempo, si comprendeva, non faceva soffrire inutilmente il lettore per estrarre un senso recondito come il noumeno kantiano. Era un poeta chiaro, “fenomenico”, tutto apparenza. Ma non per questo un poeta per il volgo che cercava l’applauso dei beoti che mandano i libri in classifica (e manco li leggono). Ma sentiva la necessità del rapporto tra parola e significato. Per lui, «l’autonomia del significante» non era altro che un sofisma. E invece quelli erano gli anni del «limite dell’espressione», di «dire l’indicibile», e insomma Lacan, e Derrida, e Deleuze, e tutti gli altri praticanti di uno sport popolare in Francia, il bavardage, la chiacchiera. Prévert, che era taciturno come una foto in bianco e nero, era un uomo di un’altra epoca, era spacciato come Jean Gabin nel Porto delle nebbie. linguaggio diretto Qualche decennio fa, da noi, è tornato di moda, come succede nel capitalismo editoriale: ogni tanto un sussulto, perché magari una pubblicità, o un passaparola innescato da un personaggio in vista, una frase nemmeno sua oppure storpiata che risveglia dal coma i lettori… E di nuovo l’oblio. E in effetti, se si va in cerca di filosofia, di visioni cosmiche, di miti tellurici, con Prévert si casca male. Quella roba oggi la si cerca, ad esempio, nei “versi” di Mariangela Gualtieri, una poetessa semidilettante che sopperisce con l’istinto per il bizzarro a contenuti apparentemente profondi, in realtà inani. Oppure nella poesia dei premi di poesia, che di contenuti non serba traccia, essendo null’altro che parafrasi di tesi di dottorato, e quindi grigia, lutulenta, e per giunta paludata. Questo, invece, è Prévert: «Mentre ascolta una musica nuova – mai sentita – una canzonetta da due soldi – un’aria da cane bastonato – cantata da un’ubriacona – proprio in mezzo alla strada – allo smemorato sembra di ricordare una vedova – che non conobbe mai – E fantasticando inventa – delle strofe di compianto – e quella dove il marito muore – lo fa sorridere – e lo conforta». Che vuol dire? Che significato misterioso avranno mai queste parole semplici e non contorte? Neanche un osso di seppia o un coccio aguzzo di bottiglia a fare da “simbolo”?