ItaliaOggi, 4 febbraio 2020
Intervista a Gianpaolo Savorelli
Ha supportato, e talvolta sopportato, la bellezza di sette sindaci – Leonzio Veggio, Carlo Delaini, Renato Gozzi, Gabriele Sboarina, Aldo Sala, Enzo Erminero, Michela Sironi Mariotti, i primi sei della Dc, l’ultima di Forza Italia – e già questo avrebbe dovuto mandarlo ne’ pazzi, come dicono a Firenze, tanto più che ha anche fatto i conti con un commissario straordinario, Alberto De Muro, il primo e l’unico, nella storia del Comune di Verona, mandato dal prefetto a presidiare le macerie fumanti di Tangentopoli.Siccome l’Adige non è l’Arno, Gianpaolo Savorelli, 74 anni domani, per 30 (fino al 2002) capufficio stampa del Comune, non solo non è ammattito, anzi ha sempre mantenuto il suo invidiabile aplomb insieme con l’imbattuto record personale di durata in municipio, ma riuscì persino, mentre il procuratore capo Guido Papalia fra un arresto e l’altro veniva ricevuto da Erminero, a scherzare con quello che all’epoca era considerato l’alter ego di Antonio Di Pietro: «Secondo me, con tutte le notizie che produce quotidianamente, lei avrebbe bisogno di un ufficio stampa», strappando un sorriso all’inflessibile magistrato. E parlava da vero esperto, tenuto conto che dal 1985 al 1993 era riuscito a sdoppiarsi pure nel ruolo di capufficio stampa dell’Ente lirico Arena, il che fa sospettare che fosse assistito dal dono della bilocazione.
Come se tutto ciò non bastasse, Savorelli, originario di Pastrengo, vedovo dal 2015, una figlia adottiva, con il 2019 ha concluso un’altra stagione da primato come direttore artistico dell’Estate teatrale veronese: 45 anni alla guida della più antica manifestazione italiana del settore, «più del Festival dei Due Mondi di Spoleto, nato nel 1958; più del Festival del Teatro Greco di Siracusa, nato nel 1964». La rassegna shakespeariana del Teatro Romano fu fondata il 26 luglio 1948 da Renato Simoni, il critico teatrale veronese che a fine Ottocento si esercitava sulle pagine dell’Arena e che nel 1906 fu assunto al Corriere della Sera da Luigi Albertini.
«Giorgio Strehler, che in quel 1948 era stato aiuto regista di Simoni, mi raccontò il modo in cui vide la luce il primo spettacolo», rievoca Savorelli. «Si era sparsa la voce che il critico avrebbe curato un Barbiere di Siviglia alla Scala. Una delegazione cittadina andò a protestare nella redazione del Corriere: “Ma come, proprio lei, un veronese, non sente il dovere di metterlo in scena in Arena?”. Al che Simoni, che aveva già 73 anni, esclamò: “Mi no so gnente de ’sto Barbier! Mi fasso teatro, no lirica!”. E i postulanti, in coro: “Allora torni a Verona per fare quello”. Così accettò di mettere in scena Romeo e Giulietta al Teatro Romano. Quella sera, ad applaudirlo, c’erano il presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, e un ventinovenne Giulio Andreotti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel governo De Gasperi. Lo stesso Strehler mi disse che durante le prove Simoni era esasperato dai continui temporali. Una sera sbottò: “Basta! Il teatro all’aperto si può fare solo al chiuso”».
Vallo a dire a Savorelli, reduce dalle giornate trascorse nell’ufficio stampa del Comune, per il quale la pioggia ha rappresentato per 45 estati «un’angoscia, una tortura, un incubo». Che tuttavia non gli ha impedito di conseguire anche qui risultati da Guinness: 640 serate shakespeariane (più di due terzi di quelle allestite dal 1948); 110 nuove produzioni nate appositamente per il Teatro Romano; 35 commedie goldoniane «made in Verona»; oltre 100 compagnie di danza. Per un totale, a spanne, di almeno 2 milioni di spettatori. E non è ancora finita, perché fu una sua invenzione anche il Grande Teatro, la rassegna invernale che si concluderà il 22 marzo.
Come fu assunto in Comune?
Per caso. Ad agosto del 1973 ero al mare a Marina di Ravenna. Mio padre ricevette una telefonata da Jean Pierre Jouvet, alias Elia Paganella, caporedattore dell’Arena: «Il sindaco Veggio cerca un addetto stampa». Tornai a casa di volata e mi ritrovai a pranzo alla Bella Italia di Pastrengo con Veggio, Jouvet e mio papà.
Che c’entrava suo padre con il sindaco?
Penso che si conoscessero dai tempi in cui era stato, fino al 1963, sindaco della Dc a Bussolengo. Io collaboravo con L’Arena, che mi mandava in provincia a seguire i festival delle voci nuove. Si vede che gli spettacoli erano nel mio destino.
Un po’ poco, come competenze, per un ufficio stampa.
Due anni prima mi ero laureato in Scienze economiche all’Università di Padova, sezione staccata di Verona, preside Gino Barbieri. Mi rivedo con un giovane Alberto Bauli, l’industriale del pandoro, mentre diamo un esame con il professor Carlo Vanzetti. «Vi considero due trentini», concluse, e ci mise un bel 30 sul libretto.
E così fu assunto in Comune.
A settembre. Ma l’idillio con Veggio durò solo un mese. Fra noi ci fu una violenta litigata per un articolo uscito sull’Arena. Me ne andai sbattendo la porta. Poco dopo, mentre attraversavo piazzetta Municipio, vidi l’autoblù del sindaco. Veggio abbassò il finestrino posteriore: «Savorelli, ci ripensi, su!». E io: no, mi sono rotto. Un alterco ad alta voce. Allora il quotidiano aveva la redazione di cronaca nell’edificio di fronte. I giornalisti si affacciarono alle finestre: «Ha ragione Savorelli, fa bene ad andarsene», urlarono al sindaco, battendomi le mani. Surreale.
Poi ricucì con Veggio?
Sì, e mi è anche dispiaciuto per la sua morte, avvenuta di recente. Senonché ben presto fu costretto a dimettersi e al suo posto arrivò Carlo Delaini, che era stato primo cittadino di Bardolino quando mio padre era sindaco di Bussolengo. Nel 1974 scoppiò una contestazione contro l’Estate teatrale, seguita da Franco Amadei, il mattatore delle commedie carnevalesche dei Ravazzin. Delaini mi disse: «Scelgo una commissione di esperti e tu la coordini». Ma io so poco di teatro, obiettai. «Fa lo stesso». E mi affiancò Giuseppe Brugnoli, il futuro direttore dell’Arena, che invece 20 anni prima si era laureato in Lettere con una tesi su Renato Simoni, avendo come relatore il poeta Diego Valeri. Nel 1975 fui nominato direttore artistico ed ebbi il mio primo infortunio.
Di che genere?
Sessuale. Paola Pitagora interpretava Titania in Sogno di una notte di mezza estate. Si presentò in scena a seno nudo. Grande scandalo, tant’è che Brugnoli, nonostante curasse l’ufficio stampa della rassegna, si sentì in obbligo di stroncare lo spettacolo con una recensione sul Giornale.
Lei si sarà arrabbiato.
Ma no. Una volta, con sindaco Sboarina, Brugnoli scrisse anche un corsivo di fuoco sull’Arena intitolato «È ora di vendere Palazzo Barbieri con tutto il suo contenuto». Era una sua strategia. Lui la spiegava così: «Ogni tanto devo attaccare la giunta comunale, così risulto credibile quando la elogio».
Torniamo alla Pitagora desnuda.
Renato Gozzi, nel frattempo subentrato a Delaini, se ne accorse solo quando a dicembre ricevette una pubblicazione intitolata Verona, un anno di cronaca. In copertina c’era un mosaico di foto, tra cui la sua e quella dell’attrice con le tette al vento. Il sindaco strabuzzò gli occhi: «Ma fasìo ’ste robe qua al Teatro Romano?».
Alla buon’ora!
Nel 1979, con Gozzi infartuato e il vicesindaco socialista Lillo Aldegheri a sostituirlo, concessi una replica involontaria, ingaggiando per la prima volta in Europa il Balletto di Tahiti. Ignoravo che le polinesiane si esibissero a seno nudo. Si sparse la voce e facemmo l’esaurito sulle gradinate, con gente munita di binocoli da marina appostata fra gli oleandri. Sempre meglio del memorabile flop rimediato due anni prima del mio arrivo dal regista veronese Fortunato Simone, raccomandato dai socialisti, con Michele Placido come debuttante in Re Giovanni. Sulla Notte apparve questo titolo: «Fortunato Simone, sfortunato Shakespeare».
E povero Gozzi.
È stato il più grande sindaco di Verona, superato in simpatia, ma non in attivismo, solo da Sboarina. Dimostrava una capacità di lavoro mostruosa. Era capace di dettare contemporaneamente alle segretarie tre lettere su tre argomenti diversi. Mai una volta si fece scrivere un discorso da me.
Rientrava fra i suoi compiti?
Be’, certo. Delaini pretendeva sempre un testo, però non lo leggeva mai, parlava a braccio, portandosi ogni tanto la mano sulla tasca della giacca: se si fosse impappinato, lì avrebbe trovato soccorso. Quando Giovanni Paolo II nel 1988 venne in visita pastorale a Verona, oltre a scrivere quello del sindaco Sboarina, contribuii a stendere il saluto del Papa, su richiesta del suo segretario particolare, don Stanislao Dziwisz. All’inizio c’infilai il «Magna Verona, vale!» tratto dall’Iconografia rateriana, che mandò in visibilio i veronesi.
Ma se lei fosse stato comunista, l’avrebbero assunta lo stesso?
Da corrispondente dell’Arena sparavo a palle incatenate contro la Dc di Bussolengo.
Ha mai nascosto una notizia?
No, anzi avevo il difetto di prendere le difese dei giornalisti. Ricordo che ci fu un’invasione di pidocchi nelle scuole comunali. «Non diciamo nulla», si raccomandò Sboarina. Al contrario, stendo subito un comunicato stampa, così spieghiamo il piano per la disinfestazione, replicai. E così feci.
Era ben nota la sua attitudine di andare d’accordo con tutti.
Vi furono solo due episodi spiacevoli, a opera dei militanti di Democrazia proletaria. Con Gozzi mi ritrovai asserragliato in municipio, mentre gli occupanti delle case Mazzi, guidati da Toti Naspri, tentavano di sfondare il portone d’ingresso. Con Sboarina rischiai di beccarmi un uovo in testa, come quello che centrò il sindaco mentre presiedeva una manifestazione contro il terrorismo in piazza Bra. Tuorlo e albume gli colavano lungo il viso, ma lui continuò imperterrito il discorso. Alla fine il segretario generale della Uil, Giorgio Benvenuto, lo rincuorò con ironia: «È stata un’ovazione».
Mai avuto incidenti durante l’Estate teatrale?
Ho negli orecchi i fischi che nel 1983 accolsero La vedova scaltra interpretata da Adriana Asti, per la regia del marito Giorgio Ferrara, a causa di una scena sadomaso in cui la protagonista maltrattava gli amanti con la frusta. In platea era schierata tutta la famiglia Ferrara, da Giuliano, direttore del Foglio, fratello del regista, al padre Maurizio, ex direttore dell’Unità, oltre a Cesare Musatti e Luca Ronconi. Fu giudicata una dissacrazione di Carlo Goldoni. A dire il vero, non piacque neppure a me. Però fece una settimana di pienone.
Perché lasciò l’ufficio stampa del Comune?
Era entrato in vigore un regolamento per cui il capufficio diventava ipso facto anche il portavoce del sindaco. Dissi alla signora Sironi: «Non se ne abbia a male, ma preferisco portare solo la mia voce, e di nessun altro».
Con gli incarichi teatrali non le avanzò tempo per annoiarsi.
C’era ancora Maurizio Pulica, assessore alla Cultura, quando una sera al Nuovo trovai solo due file di spettatori radunati per Salvo Randone in Pensaci, Giacomino! di Pirandello. È uno scandalo, dobbiamo fare qualcosa, dissi a Pulica. Mi diede carta bianca. Telefonai allo stuolo di attori che avevo scritturato nel corso degli anni al Teatro Romano: Vittorio Gassman, Monica Vitti, Giorgio Albertazzi, Rossella Falck, Tino Carraro, Mariangela Melato, Valeria Moriconi, Ornella Vanoni, Umberto Orsini, Alberto Lionello. Il Grande Teatro nacque così. Da 80 abbonamenti schizzammo a 1.200. C’era gente che si faceva raccomandare per acquistarne uno.
I divi diventavano suoi amici?
Più o meno. Per Gassman, che si era rotto le costole uscendo dalla vasca da bagno ed era stato costretto a saltare l’Estate teatrale, organizzai a settembre il Macbeth al Filarmonico. Lo produssi in collaborazione con il teatro Manzoni di Milano, il cui proprietario era, ed è, Silvio Berlusconi. Alla prima si presentò il Cavaliere: «Ha bisogno di sponsor? Glieli procuro io». Alla fine, in camerino, Gassman si riempì la bocca di champagne bevendo direttamente dalla bottiglia e lo sputò contro la locandina della tragedia shakespeariana, non a torto incolpata di portare iella.
In quello spettacolo lavorava anche il figlio Alessandro, mi pare.
Sì, come macchinista. In seguito lo reclutai per una particina nel Sogno di una notte di mezza estate. Al Teatro Romano, per le prove, si presentò suo padre. Gli chiesi: Vittorio, che te ne pare? Scosse la testa: «Speriamo che maturi, perché non ci siamo assolutamente».
Tombale.
Forse in quegli impacci giovanili rivedeva sé stesso. Per far posto al Romeo e Giulietta con un Vittorio Gassman ancora acerbo, nel 1956, in piazza dei Signori, spostarono persino la statua di Dante. «Fu il più brutto spettacolo nella storia del teatro italiano», mi confidò a cena. Ad Alessandro poi bocciai il progetto per Coriolano. Lui volle ugualmente metterlo in scena al teatro Eliseo di Roma e rimediò un fiasco.
Capita, a teatro.
A chi lo dice. Nel 1995 m’inventai una Dodicesima notte con Rita Pavone nel ruolo di Maria: disastro. Nel 1998 scritturai Sandra Milo per Gertrude in Amleto: disastro. Nel 2004 Enrico Montesano prese sottogamba la parte in Riccardo III: disastro.
Verona le ha dato una mano?
Tutt’e due, nei limiti del possibile. Ma non potrò mai dimenticare Tino Buazzelli, vestito da Falstaff, seduto ogni sera su uno sgabello fuori dal camerino a borbottarmi in romanesco: «Voi nun ciavète le strutture». Non si dava pace perché dovevo mandarlo a dormire in albergo a Vicenza.
Tutti primedonne, gli attori.
Mai quanto il regista Carmelo Bene. Volle essere alloggiato in una villa patrizia della Valpolicella. Rincasava alle 5 e svegliava i proprietari cantando brani d’opera in giardino. Siccome per un nubifragio gli era saltata una prova, pretese di farla dalle 14 alle 17, senza veicoli sulle Regaste Redentore, altrimenti avrebbe dato forfait. Costrinsi il sindaco Sironi a chiudere la via del Teatro Romano a quell’ora con un’ordinanza. Il traffico cittadino restò paralizzato.
Doveva soddisfare anche le richieste più bizzarre?
Per forza. Nel 1991, per La tempesta recitata in francese, Peter Brook ideò un’unica scenografia: un rettangolo di sabbia che rappresentava l’isola di Prospero. Mi toccò far dragare l’intero corso dell’Adige, fino a Trento, per trovare una rena che fosse di suo gradimento. Però quello spettacolo shakespeariano me lo porto ancora qui, nel cuore.
(L’Arena)