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 2020  febbraio 04 Martedì calendario

Lo strano caso della vitamina D

È un rebus quello della vitamina D, fino a ieri consigliata a tutti, molto spesso alle donne in menopausa, e ora rimborsata solo in specifici casi. Lo ha stabilito l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) con la nota 96: la ricetta rossa spetta agli anziani nelle case di riposo, alle donne in gravidanza o che allattano e alle persone con osteoporosi oppure osteopatia che non assumono una terapia per le ossa. Poi ci sono quelli che ne hanno diritto solo dopo aver fatto l’esame per determinare il livello di vitamina D nel sangue (il valore soglia è di 20 ng/mL). Esame che però, sottolinea l’Aifa, dovrebbe essereri servato solo a chi è davvero a rischio di carenza: chi ha sintomi associati a deficit di vitamina D o chi ha malattie che possono causare un malassorbimento, per fare due esempi. Tutti gli altri, se la vogliono, dovranno pagarla di tasca propria.
Ma perché, allora, fino a ieri veniva prescritta anche per la prevenzione di malattie cardiovascolari, ictus o tumori? Il punto è che non ci sono ancora chiare evidenze scientifiche che sia davvero utile per tutto questo. L’Aifa lo dice chiaramente: è inefficace e inappropriata per tali indicazioni. E la spesa sostenuta oggi dal Sistema Sanitario per i farmaci per la supplementazione classificati in fascia A (come il colecalciferolo, che rappresenta oltre l’80% delle confezioni vendute negli ultimi anni) non sembra essere giustificata. Anche perché è cresciuta enormemente negli ultimi 10 anni: secondo l’ultimo rapporto Osmed, nel 2017 è costata più di 260 milioni (l’1,2% della spesa complessiva per farmaci), con un aumento del 23% rispetto all’anno precedente.
«Bisogna uscire dalla moda ed entrare nella medicina – dice Pier Luigi Bartoletti, vicepresidente della Federazione italiana medici di medicina generale (Fimmg) – la vitamina D è tra i farmaci più prescritti, quando dieci anni fa era limitata a pochi. È un ormone che regola l’assorbimento di calcio e fosforo, molto importante per il sistema muscolo-scheletrico e immunitario, ma va dato solo quando ce n’è reale necessità e non per sopperire a uno stile di vita sbagliato. Se un medico la prescrive fuori indicazione, se ne assume la responsabilità. Non è una questione semplice, ma non stupisce che l’Aifa, in un momento in cui abbiamo molti farmaci innovativi, abbia deciso di rimborsare le indicazioni per cui si hanno i maggiori benefici e che hanno alle spalle le prove più solide».
Il problema è che i dati sono contraddittori: una carenza di vitamina D è stata associata a maggior rischio di diverse patologie, tra cui quelle cardiovascolari, il cancro e l’asma, ma gli studi clinici (negli Usa è in corso l’ampio Vital Study) ad oggi non hanno dimostrato che la supplementazione riduca questi rischi.
«La risoluzione dell’Aifa aiuta almeno in parte a fare chiarezza, perché l’utilizzo della vitamina D si è allargato a dismisura, spinto dal marketing – sottolinea Maria Luisa Brandi, docente di Endocrinologia all’università di Firenze e presidente Firmo – basti pensare che veniva prescritta anche al posto dei farmaci contro l e fratture, sebbene non abbia questa indicazione. Dall’altro lato, però, non dobbiamo commettere l’errore di definire la medicina solo sulla base di ciò che viene rimborsato dal sistema sanitario e cadere nell’eccesso opposto, pensando che la supplementazione non serva a nulla».
Insomma, appropriatezza terapeutica e rimborsabilità sarebbero discorsi da tenere separati. Se è vero che bastano 20 minuti di esposizione al sole perché il nostro corpo ne produca la quantità necessaria, ci sono dei “ma” da considerare: «Per esempio – spiega l’esperta – la mucosa del tratto intestinale assorbe meglio il calcio nei giovani che negli anziani. E le persone obese possono avere dei deficit, perché la vitamina D si deposita nel tessuto adiposo. Oggi questi farmaci costano molto poco e il fatto che non siano più rimborsati in alcuni casi non vuol dire che chi la assumeva sotto controllo medico improvvisamente non debba più farlo».