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 2020  febbraio 04 Martedì calendario

La lezione della badante

Matteo Salvini si è lanciato alla conquista dell’Emilia Romagna twittando come un forsennato sui temi dell’immigrazione: 30 tweet al giorno tra novembre e gennaio di cui un quinto dedicato agli sbarchi (associati alle aziende che chiudono, alle infrastrutture che cadono). Nicola Zingaretti ha difeso la Romagna e gran parte dell’Emilia evitando come la peste bubbonica il tema immigrazione. Non sembra che le cose cambieranno dopo le elezioni. Mentre Salvini sta cavalcando anche la paura del coronavirus per far chiudere ermeticamente le frontiere, nella cosiddetta agenda 2023 ritroviamo di tutto e di più, ma neanche un singolo cenno alle politiche dell’immigrazione.
C’è davvero tutto da guadagnare elettoralmente per il governo nel non parlare di immigrazione e nel procrastinare ogni misura a riguardo? Non ci sono i margini per costruire una narrativa del problema più vicina alla realtà e, soprattutto, non si rischia di rinvio in rinvio di fare gravi danni al Paese? Il vero problema dell’immigrazione in Italia non ha nulla a che vedere con gli sbarchi. Riguarda milioni di famiglie, soprattutto di italiani. Si chiama non autosufficienza. È la storia di persone come Sentiliana, la ragazza di Durazzo per cui si è mobilitato un intero paese, che assiste una malata di Sla e che oggi rischia di venire espulsa dal nostro Paese perché irregolare.
Ed è la storia di centinaia di migliaia di pensionati che sono ben tutelati dalle nostre pensioni, ma che diventano poveri nel momento stesso in cui non sonopiù autosufficienti e devono pagarsi un aiuto a domicilio. Stiamo arrivando del tutto impreparati a questa sfida epocale: nei prossimi decenni la popolazione di ultra 85enni è destinata a più che triplicare raggiungendo il 10% della popolazione.
I lavoratori domestici immigrati sono l’ossatura del sistema privato che abbiamo sin qui utilizzato per affrontare il problema. Con il loro lavoro ci permettono di assistere molte persone non-autosufficienti senza impedire soprattutto alle donne di lavorare e generare reddito. Ma abbiamo chiuso le frontiere anche a loro. Da 10 anni ormai abbiamo rinunciato a varare decreti flussi con quote per colf e badanti minimamente in linea con la domanda di lavoro. Il risultato è stato gonfiare le fila del lavoro nero.
Il numero di lavoratori domestici extra-comunitari iscritti alla gestione Inps si è ridotto di un quarto, non compensato dall’aumento dei lavoratori comunitari o italiani che non hanno problemi coi visti. Le badanti rimaste e regolari sono invecchiate (erano trentacinquenni in media, adesso sono ultracinquantenni) in un lavoro in cui la forza fisica conta molto. Non appena poi c’è un provvedimento di regolarizzazione del lavoro nero, il numero di colf e badanti extracomunitarie si impenna, a dimostrazione del fatto che questi lavori continuano a essere richiesti.
Abbiamo bisogno che colf e badanti vengano regolarizzate non solo perché questo porterebbe ad un aumento dei contributi versati all’Inps (le stime sono di circa 3 miliardi all’anno di evasione contributiva in questo comp arto). Solo il lavoro regolare, legale, di colf e badanti può essere coordinato in un impianto più generale di assistenza che veda un intervento pubblico importante nel fornire direttamente servizi alle famiglie. La non-autosufficienza è sempre più figlia di malattie neuropsichiche (più del 50% delle indennità di accompagnamento è legata a patologie di questo tipo) che peggiorano rapidamente sia quando il malato viene ricoverato in strutture specializzate, lontano dalla propria famiglia, sia quando rimane rinchiuso a casa sua, privo di assistenza specializzata e di interazioni sociali.
Come ci insegna l’esperienza di altri Paesi, a partire dalla Germania, è possibile una terza via tra ricovero e isolamento a casa. Si può, in aggiunta all’assistenza domiciliare di una badante o dei famigliari, permettere al malato di ricevere assistenza domiciliare personalizzata ed essere coinvolto in servizi pubblici collettivi che diventano anche occasioni di socializzazione. È una strada parzialmente sperimentata in Italia nell’ambito del programmaHome Care Premium ideato e gestito dall’Inps nella discrezionalità consentitagli dall’utilizzo delle risorse raccolte mediante la contribuzione aggiuntiva obbligatoria dello 0,30% dei dipendenti pubblici.
I beneficiari ricevono oltre a un contributo alle spese per le badanti, servizi integrativi forniti da ambiti territoriali sulla base di un piano di assistenza individuale. Questo sistema potrebbe essere esteso alle famiglie di dipendenti del settore privato se, invece di continuare ad aumentare la spesa pensionistica, si pensasse alla non-autosufficienza. In ogni caso è un programma che funziona solo se l’assistente a domicilio è regolarizzata e il datore dichiara effettivamente le ore lavorate. Per essere meglio attrezzati a gestire la non-autosufficienza bisogna fare emergere non solo il nero, ma anche il grigio. Il lavoro delle badanti, anche quando italiane, anche quando regolarizzate, è spesso lavoro grigio, in cui solo una parte delle ore lavorate e dei compensi viene effettivamente dichiarata.
Basta guardare alla distribuzione dei redditi dei lavoratori domestici notificati all’Inps per rendersene conto. C’è una forte concentrazione di dichiarazioni al di sotto degli 8.000 euro, la soglia oltre la quale il lavoratore è tenuto a presentare la dichiarazione dei redditi e a pagare l’Irpef. Il fatto che si tratti di scelta volta a non pagare le tasse è confermato dal fatto che, dopo l’introduzione degli 80 euro, non pochi lavoratori domestici hanno cominciato a presentare o modificato la dichiarazione dei redditi, registrando un reddito fra gli 8000 e i 9000 euro per beneficiare appieno dei 960 euro del cosiddetto bonus Renzi. Frequente, inoltre, il caso di badanti che, durante i periodi di pausa da un lavoro effettivamente molto pesante, chiedono al proprio datore di lavoro di essere licenziate per poter ricevere la Naspi che diventa a quel punto, come nel caso dei sussidi di disoccupazione agricola, una specie di integrazione al salario.
Per far emergere il grigio bisogna ripensare al trattamento fiscale del lavoro domestico. È un lavoro alle dipendenze sui generis, in cui gli orari di lavoro possono essere variati molto facilmente. Non è un caso che le assenze per malattia siano a carico dei lavoratori e non prevedano il versamento di contributi figurativi, che i licenziamenti anche da contratti a tempo indeterminato non siano coperti dai regimi di protezione dell’impiego (c’è solo un preavviso obbligatorio) e ancora che tutte le proposte di introduzione di un salario minimo in Italia escludano questa categoria.
Una strada da perseguire è quella di introdurre degli espliciti incentivi a dichiarare il totale delle ore effettivamente lavorate, con integrazioni salariali (che valgano anche ai fini contributivi, dunque previdenziali) al di sopra della soglia degli 8.000 euro, come nei sussidi condizionati all’impiego presenti in altri Paesi. Sono questioni, in ogni caso, che la fase due del Conte II non può più permettersi di ignorare perché riguardano milioni di famiglie italiane.