Corriere della Sera, 4 febbraio 2020
Contro la meritocrazia
Caro direttore, l’indecente fenomeno dell’aumento endemico delle ingiustizie sociali, che caratterizza l’attuale passaggio d’epoca – fenomeno di cui sappiamo ormai quasi tutto a livello statistico e informativo –, deve indurci a considerare perché mai è così ancora diffusa l’idea secondo cui le diseguaglianze sarebbero un qualcosa di connaturato alla condizione umana o come una sorta di male necessario per consentire di progredire. Insomma, come qualcosa con cui imparare a convivere, così come in altre epoche storiche il genere umano ha saputo fare con le «stravaganze» della natura. L’accettazione supina del factum taglia così le ali al faciendum . Ebbene, una causa di ciò – sia pure non unica – è la diffusione a macchia d’olio, nel corso dell’ultimo trentennio, dell’ideologia meritocratica.
Introdotto per primo dal sociologo inglese Michael Young nel 1958, il concetto di meritocrazia è andato via via crescendo di rilevanza nel dibattito pubblico. Meritocrazia è, letteralmente, il potere del merito, cioè il principio di organizzazione sociale che fonda ogni forma di promozione e di assegnazione di potere (si badi, il potere come potenza) esclusivamente sul merito. Il merito è la risultante di due componenti: il talento che ciascuno riceve dalla lotteria naturale e l’impegno profuso dal soggetto nello svolgimento di attività o mansioni varie. Nelle versioni più raffinate, la nozione di talento tiene conto delle condizioni di contesto, dal momento che il quoziente di intelligenza dipende anche dall’educazione ricevuta e da fattori socio-ambientali. Del pari, la componente dello sforzo viene qualificata in relazione alla matrice culturale della società in cui cresce e opera l’individuo, e ciò perché l’impegno dipende, oltre che dai «sentimenti morali», anche dal riconoscimento sociale, cioè da quello che la società reputa di dover giudicare meritorio. Invero, è un fatto a tutti noto che la medesima abilità personale e il medesimo sforzo vengono valutati diversamente a seconda dell’ethos pubblico prevalente in un dato contesto.
Ecco perché quello meritocratico, secondo il giudizio del suo stesso inventore, non può essere preso come criterio, per la distribuzione delle risorse di potere, sia economico sia politico. Young fu talmente persuaso della pericolosità di tale principio che arrivò a scrivere nel 2001 un articolo in cui lamentò il fatto che il suo saggio del 1958 fosse stato interpretato come un elogio e non come una critica radicale della meritocrazia intesa come sistema di governo e organizzazione dell’azione collettiva. In buona sostanza, il pericolo serio insito nell’accettazione acritica della meritocrazia è lo scivolamento – come Aristotele aveva chiaramente intravisto – verso forme più o meno velate di tecnocrazia oligarchica. Già il filosofo greco aveva scritto che la meritocrazia non è compatibile con la democrazia.
Ben diverso è il giudizio nei confronti della meritorietà che è il principio di organizzazione sociale basato sul criterio del merito e non già del potere del merito. È certo giusto che chi merita di più ottenga di più, ma non tanto di più da porlo in grado di influenzare regole del gioco – economico e/o politico – che valgono poi di avvantaggiarlo ulteriormente. Si tratta cioè di evitare che le differenze di ricchezza associata al merito si traducano in differenze di potere decisionale. Se non è accettabile che tutti gli uomini vengano trattati egualmente – come vorrebbe l’egualitarismo – è però necessario che tutti vengano trattati come eguali, il che è quanto la meritocrazia non garantisce affatto. In altro modo, mentre la meritocrazia invoca il principio del merito nella fase della distribuzione della ricchezza, cioè post-factum, la meritorietà si perita di applicarlo nella fase in cui si genera la ricchezza, mirando ad assicurare l’eguaglianza delle capacitazioni (capabilities) e non solamente delle opportunità. In buona sostanza, il problema serio con la nozione di meritocrazia non sta nel merere (guadagnare) ma nel kratos (potere). La meritorietà, invece, fa propria la distinzione tra merito come criterio di selezione tra persone e gruppi e merito come criterio di verifica di una abilità o risultato conseguito. Il primo è respinto; il secondo è accolto. La meritorietà è dunque la meritocrazia depurata della sua deriva antidemocratica. Per l’ideologia meritocratica, se un individuo cade nella povertà è «colpa» sua: di qui l’aporofobia, cioè il disprezzo del povero e del diverso. L’altro dogma che la meritocrazia ha concorso a veicolare è la credenza che l’elitarismo vada incoraggiato perché efficiente e ciò nel senso che il benessere dei più crescerebbe maggiormente con la promozione delle abilità dei pochi. E dunque risorse, attenzioni, incentivi, premi devono andare ai più dotati, perché è all’impegno di costoro che si deve il progresso della società. Ne deriva che l’esclusione dall’attività economica – nella forma, ad esempio, di precariato e/o disoccupazione – dei meno dotati è qualcosa non solamente normale, ma anche necessario se si vuole accrescere il tasso al quale aumenta il Pil. E questo è fattualmente falso.
Come ha scritto Luigino Bruni, una delle più straordinarie conquiste morali dell’umanesimo cristiano è l’aver liberato i poveri, gli emarginati, gli scartati dalla «colpa» per la loro condizione. Sappiamo infatti che nel mondo antico la condizione del diseguale era conseguenza della meritata maledizione divina; con il che questi veniva doppiamente colpito. Il buon Samaritano, invece, presta soccorso al malcapitato non perché se lo meritasse, ma perché era un uomo! Il Terzo Settore bene conosce e pratica questa concezione, come «Buone Notizie» ci testimonia settimanalmente. Ad esso il compito, duro ma affascinante, di far avanzare le ragioni della meritorietà.