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 2020  febbraio 03 Lunedì calendario

Parità uomo-donna in busta paga? Serviranno 257 anni

a lotta contro la diseguaglianza retributiva tra uomini e donne non decolla. Eppure, rispetto alla questione della presenza femminile nei board, ampliatasi grazie alla legge Mosca-Golfo e che coinvolge una ristretta élite femminile, quella del pay gap è una battaglia popolare. «A livello globale non c’è nessun Paese che abbia raggiunto l’uguaglianza di genere, indipendentemente dal livello di sviluppo, dalla regione o dal tipo di economia» ci ha fatto sapere Anna-Karin Jatfors, direttore regionale di UN Women, l’ente dell’Onu per l’uguaglianza di genere e l’empowerment femminile. Secondo il World Economic Forum, la disparità politica verrà colmata tra 95 anni. Quella retributiva tra 257 anni.
Il Global Gender Gap Report 2020, appena pubblicato, segnala che l’Italia è scesa dal 70° al 76° posto mondiale nella classifica dei Paesi che attuano la parità salariale. Una donna italiana guadagna in media circa 17.900 euro l’anno rispetto ai 31.600 maschili e a fronte di molte più ore lavorate, perché viene pagata proporzionalmente meno e fa molto più lavoro non retribuito di un uomo (lavori domestici, cura dei figli, ecc.).
Rincara la dose il Global Wage Report 2018/19 dell’International Labour Organization: le donne continuano ad essere pagate circa il 20% di meno rispetto agli uomini. Le lacune retributive di genere rappresentano una delle maggiori ingiustizie sociali di oggi e per questo motivo tra i 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile 2030 dell’Onu c’è «la piena e produttiva occupazione e un lavoro dignitoso per tutti e la parità di retribuzione per lavoro di pari valore».
Il rapporto dimostra che le spiegazioni tradizionali, come le differenze nei livelli di istruzione, hanno un impatto limitato rispetto ai divari retributivi di genere. Le donne risultano più istruite degli uomini in molti Paesi, ma guadagnano di meno, a parità di ruolo. I salari poi sono tendenzialmente più bassi nelle imprese e nelle aziende a prevalenza femminile. Secondo i dati raccolti, un fattore che pesa sul divario salariale è la maternità. Le lavoratrici madri hanno stipendi più bassi rispetto a quelle senza figli. Ciò può essere legato a una serie di cause, tra cui interruzioni o riduzioni dell’orario di lavoro, occupazione in mansioni più favorevoli agli impegni familiari, ma che comportano salari più bassi o stereotipi nelle decisioni relative agli avanzamenti di carriera.
Discriminazioni occulte
In Italia, gli elementi fissi che compongono la retribuzione sono stabiliti dai contratti collettivi nazionali, senza differenziazioni di genere e pertanto non consentono discriminazioni salariali dirette. Tuttavia, un sotto-inquadramento della lavoratrice, a parità di lavoro effettivamente svolto, un mancato avanzamento di livello possono condurre a discriminazioni salariali «occulte», un tema rilanciato di recente dal Movimento Consumatori. Determinate politiche salariali e di organizzazione dei tempi di lavoro, insieme all’assenza di servizi complementari che permettano di conciliare le esigenze lavorative con quelle familiari, contribuiscono nella misura del 30% alle diseguaglianze di retribuzione nelle aziende. Tra le cause del differenziale retributivo c’è la minore capacità negoziale delle donne nei confronti del datore di lavoro, spesso dovuta alla necessità di barattare la flessibilità di orario con una retribuzione più bassa. Inoltre, le donne, indipendentemente dal fatto che abbiano o non abbiano figli, sono pagate meno degli uomini, perché molte aziende ritengono che possano, anche in proiezione, produrre potenzialmente meno a causa di ipotetiche assenze sul lavoro dovute a possibili responsabilità di cura della famiglia. Anche elementi variabili come i superminimi e i fringe benefit complementari alla retribuzione principale possono essere utilizzati per discriminare, sotto il profilo retributivo.
Secondo gli ultimi dati disponibili, l’Unione europea ha fissato l‘indice che misura la discriminazione salariale di genere in 16,2%, come media tra i Paesi europei, con un divario pensionistico di genere del 36,6%. Ma l’indicatore più corretto è quello che misura invece l’impatto di tre fattori tra loro combinati: guadagni orari, ore retribuite e tasso di occupazione sul reddito medio di uomini e donne in età lavorativa. Se si prende in considerazione questo indice, l’Italia mostra un gap salariale del 43,7% rispetto a una media europea del 39%.

Il ruolo del part time
Anche i dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico(Ocse) del marzo scorso collocano l’Italia in una posizione apparentemente buona, ma solo se si considera il gap nella retribuzione oraria (5,6%). Un dato che relativo solo ai lavoratori full time, mentre l’Istat ci dice che quattro donne su dieci oggi lavorano part time. Inoltre il gender gap nel settore pubblico in Italia ammonterebbe al 4,1% ma nel privato supererebbe il 20%. L’Istat (report 2016 ) registra che nel privato solo il 17,8% delle donne, contro il 26,2% degli uomini, percepisce una retribuzione oraria superiore a 15 euro. E nella libera professione? Peggio. L’ultimo rapporto dell’Associazione degli enti di previdenza privati (Adepp) rileva che una donna fra i 30 e i 40 anni guadagna in media 17 mila euro lordi, un uomo 3 mila in più; fra i 40 e i 50 anni il divario si fa più consistente con una differenza di 15 mila euro.
Un’esempio da seguire? La legge islandese del 2018 che impone a istituzioni pubbliche e private, aziende, banche e a chi ha più di 25 dipendenti di assicurare la parità retributiva. Le multe arrivano a 450 euro. Giovedì scorso i deputati europei hanno chiesto alla Commissione disposizioni vincolanti sulla trasparenza delle retribuzioni e sul divario retributivo nel pubblico e nel privato. La Presidente Ursula von der Leyen ha promesso di fare della «parità di retribuzione» il principio fondante della nuova Strategia europea di genere che sarà presentata a marzo.
(ha collaborato Antonella Baccaro)