la Repubblica, 3 febbraio 2020
Intervista a Shia LaBeouf
Confesso che durante le riprese del film mi sono sentito solo. O meglio, mi sono volutamente isolato. Ma l’ho fatto anche durante la stesura del copione. È impossibile condividere i fantasmi, anzi, i demoni del tuo passato con qualcuno». C’era una volta un bambino-attore molto bravo, star della serie di Disney Channel Even Stevens , che poi divenne un giovane attore di grande successo con la serie Transformers; ma dopo il terzo capitolo di quella stessa saga, all’apice del successo, il giovane attore andò in tilt. Shia LaBeouf iniziò a sorprendere tutti con stravaganti bravate: "body installation" su YouTube e nei musei, provocazioni di vario genere, litigi e disturbi della quiete pubblica che nel 2016 lo fecero finire addirittura in gattabuia.
Aspirava a diventare una sorta di Banksy di se stesso: uno street artist mordi e fuggi. Pochi i film da allora ( Borg McEnroe ad esempio), alcuni progetti indipendenti, strane scelte per un attore che aveva conquistato un enorme credito e contratti milionari a Hollywood.
LaBeouf, che oggi ha 33 anni, rivisita adesso la sua crisi personale in Honey Boy, una sorta di film-terapia da lui scritto e interpretato, e diretto dall’esordiente israeliana Alma Har’el, con cui LaBeouf aveva collaborato su alcuni video. Un film autobiografico, in cui racconta la sua "infanzia schifa" (come la chiama lui) col padre padrone, tossico e trasgressivo, che gli rese la vita impossibile e lo coinvolse in troppi eccessi quando lui lavorava come attore mantenendo tutta la famiglia, con una madre assente. LaBeouf è stato in riabilitazione per alcolismo e per gli effetti di una sindrome da stress post-traumatica – Ptds, come quella dei soldati che tornano dal fronte – causata dalla sua anormale relazione col padre. Nel film LaBeouf recita proprio la parte di suo padre, mentre il giovane Noah Jupe interpreta quella di Otis, una versione di Shia da ragazzino, e Lucas Hedges quello di Otis più adulto. Il film ha destato scalpore al festival Sundance dello scorso anno (2019), ed ha ricevuto recensioni positive dai critici americani: in Italia arriverà il 5 marzo.
Suo padre ha visto il film?
«Certo. Come sapete ci siamo riconciliati. Anche lui ha fatto tanta terapia ed è cresciuto. Vedere il film insieme a lui è stata l’esperienza più catartica e positiva della mia vita. È un po’ il riassunto della guarigione e della gioia familiare a cui aspiravo. Non mi interessava che gli altri vedessero mio padre sotto un’altra luce, ma che mio padre riuscisse a vedersi lui stesso sotto un’altra luce. Esperimento clinico riuscito».
Lei ha ritrovato la leggerezza perduta?
«Sì, e anche mio padre. Ci siamo entrambi liberati di un fardello pesantissimo. E lui adesso sa cosa sento per lui, perché dire "ti amo" non significa niente per una persona che non sa amare se stessa.»
La regista Alma Har’el ha detto che il film copre solo il 5% della sua infanzia e giovinezza. Perché ha scelto di raccontare proprio quel periodo?
«Perché quando ero al "boot camp mentale", come chiamo il mio periodo di riabilitazione, è proprio in quella fase della mia vita che ho voluto scavare per trovare le radici della mia esistenza. Certo, ero guidato da terapisti, e da questa esperienza mentale è emerso il copione del film. Era un percorso che ho deciso di fare per poter assolvere me stesso da tante cose e accusare mio padre per il mio comportamento. Solo così potevo affrontare quel caos chiamato Shia in maniera aperta e sincera».
Quale scena è stata la più difficile da girare, emotivamente parlando?
«Forse quella in cui torno dallo strip club e, mentre siedo sulla tazza del gabinetto, parlo a mio figlio e gli dico "sai cosa si prova quando tuo figlio paga per te?" Quella scena è stata veramente dura. Abbiamo fatto solo un ciak, non sarei riuscito a girarla due volte. Quel bagno mi faceva sentire nell’angolo, alle corde. Lo stress ti chiude in gabbia. Come una persona braccata ti guardi intorno cercando una via di scampo».
Possiamo dire che il cinema e il lavoro di attore sono stati la sua terapia?
«Sono stati la parte migliore della mia vita. Il cinema mi ha salvato da tante altre cose, è l’unica relazione duratura che abbia mai avuto. Sarò sempre grato a questa industria e a questo mestiere. Non è stata la Disney a causare il mio stress, come molti credono. Per niente. Era quando tornavo a casa dalla Disney che i problemi iniziavano, durante la mia infanzia».
Si sente sicuro in questo ambiente?
«Sì, anche se c’è un tessuto connettivo di vulnerabilità e insicurezza che accomuna tutti noi attori. Ma il legame che stabilisci coi tuoi colleghi ti dà forza e sicurezza».
Lei ha detto di non voler più recitare per soldi, o comunque solo per soldi. Ma se qualcuno le offrisse, per dire, 30 milioni di dollari per un altro "Transformers", accetterebbe?
«Parte del mio percorso di guarigione consiste nell’ aver smesso di dire "no" a tutto, o di farlo comunque a prescindere. Non dico più di no a niente. Per quanto riguarda la domanda, dipende da tante cose: se il copione fosse decente, forse sì. È vero, i soldi non sono più il motivo della mia voglia di lavorare. Ma è anche vero che i soldi garantiscono opzioni, il lusso di scegliere, quindi significano libertà. La libertà è la mia unica vera aspirazione».