Il Messaggero, 3 febbraio 2020
Storia dello Spallanzani, eccellenza italiana
rano gli anni Trenta e Roma, con poco più di un milione di abitanti, non aveva un ospedale dove ricoverare, tenere in isolamento e curare chi si ammalava di poliomielite, tifo, tetano. Nel 1936, accanto all’allora Ospedale del Littorio (oggi San Camillo) e al Forlanini venne inaugurato l’Istituto Lazzaro Spallanzani.
Un cittadella dedicata alle malattie infettive con quindici padiglioni separati e 269 letti. Ben 134 mila metri quadrati venivano destinati alle patologie che falciavano bambini e adolescenti. L’emergenza che portò ad accelerare la nascita dell’ospedale fu la diffusione della poliomielite. A questi pazienti venne dedicata una sezione fin dall’apertura.
Una storia strana quella dello Spallanzani. Da allora fino all’inizio anni Ottanta quell’istituto, per la gente di Roma, era una sorta di ghetto sanitario. Si arrivava ad evitare di dire che si era stati ricoverati lì. Eppure, durante tutti quei decenni, è sempre stata la punta di diamante dell’infettivologia. Ricordiamo solo la recrudescenza del colera nel 1973. È sempre stato l’ospedale dovericoverare i pazienti con le nuove infezioni. Come l’Hiv.
L’ASSISTENZA
Nacque lì uno dei primi centri di accoglienza e cura per chi era entrato in contatto con il virus dell’Aids. Un’autentica frontiera riconosciuta a livello internazionale. Non solo ricovero, cura e assistenza ma anche, ovviamente, ricerca. Con pochi mezzi. Parliamo di 35 anni fa.
Da qui, la seconda vita dello Spallanzani. Nel 1991 inizia la costruzione del nuovo ospedale, nel96 viene riconosciuto come Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico, polo nazionale di riferimento per il bioterrorismo (l’unico laboratorio italiano di livello di biosicurezza 4) e polo nazionale di riferimento per la Sindrome respiratoria acuta (Sars). Sei anni fa l’allarme Ebola: qui viene ricoverato e guarito il medico italiano infettato in Sierra Leone mentre lavorava.
Un ospedale dove si lavora dall’epidemia del Coronavirus nelle sue diverse e nuove versioni alla minaccia antrace alle febbri emorragiche all’Hiv. Alle infezioni nei trapianti. Un campo d’azione e controllo talmente vasto da dividere in quattro percorsi lo spettro della ricerca. 1) Infezioni emergenti. In questi laboratori si lavora sui patogeni rari e di difficile diagnosi. Che significa controllo delle malattie e strategie per riuscire ad arrestarle. Argomenti che, in questi giorni, sono stati più volte richiamati per fermare la diffusione del virus cinese. Tra i filoni, l’antibiotico resistenza e le infezioni ospedaliere.2) Aids. Lo studio, dalla clinica alla terapia alla prevenzione, prosegue puntando a risultati che, in tempi brevi, possano passare dal laboratorio alla casa del paziente. La ricerca qui può contare su una organizzazione di cura e di assistenza che raccoglie oltre settemila persone con Hiv. 3) Le epatiti. Che sia l’aspetto virologico come le alterazioni che sono alla base della cirrosi e del cancro del fegato 4) La tubercolosi con particolare attenzione alle forme resistenti.
I COLORI
Fuori, un muro di cinta tutto da guardare e studiare. È la potenza e il colore della street art a omaggiare la Hall of fame dell’infettivologia mondiale. Sono i ritratti, voluti dall’ospedale, di tredici scienziati che hanno permesso all’uomo, con le loro scoperte, di sopravvivere agli attacchi dei virus, a vincere le epidemia e continuare a studiare. Un murales lungo 270 metri, tra i volti di Edoardo Jenner, Alexander Fleming, Carlo Urbani. All’inizio e alla fine un motto: Lessons from the past, challenges for the future, già lezioni dal passato, sfide per il futuro.