Il Sole 24 Ore, 2 febbraio 2020
Storia del calcio ribelle e operaio
E il calcio fu. Accadde tutto intorno al 1860, oltre Manica. Dopo avere spossessato le comunità agricole e paesane del loro gioco popolare, il folk football, le classi dominanti inglesi trasformarono quella che era ancora una pratica ingenua, violenta, giocata in spazi bucolici e irregolari, in una nuova forma di socialità per gentlemen, e codificarono le regole del gioco.
Era incominciata una partita avvincente, dal risultato incerto. In appena una trentina di anni, un gigantesco contropiede della storia impresse al pallone una traiettoria nuova e imprevedibile: la classe operaia britannica, figlia dello sviluppo industriale, si invaghì e si impadronì dello sport più bello del mondo, e non lo abbandonò più. Il popolo correva a perdifiato e giocava da squadra. Il passing game, fatto di una ragnatela di passaggi, aveva in sé il segreto della vittoria: mantenere il più possibile il possesso del pallone. Il passing game rifletteva l’aiuto reciproco proprio della condizione operaia e dell’organizzazione di fabbrica, e si contrapponeva al dribbling game, la serpentina snob ed egoista tipica del calcio aristocratico e borghese.
Anche oggi, a più di un secolo e mezzo di distanza, la partita di calcio conserva lo stesso sapore di umana, imponderabile avventura, di braccio di ferro tra forti e deboli, di decreti del destino crudeli e imprevedibili a dispetto di ogni sforzo agonistico. Entrare in uno stadio è come rinnovare l’appuntamento con la speranza: in 90 minuti si concentrano l’emozione dell’incertezza e la possibilità della gioia. E questo è sempre vero, anche se a scontrarsi sul terreno verde sono la corazzata abituata a navigare nei mari della Champions League e il guscio di noce della neopromossa dalla serie B.
Il rischio, in epoca di video assistenza per l’arbitro, di sponsorizzazioni miliardarie, e di compensi faraonici per calciatori e procuratori, è di trasformare il calcio in chirurgica operazione commerciale. Di dimenticarne gli archetipi, le simbologie, gli intrecci con la storia e con il riscatto degli emarginati. C’era forse qualcosa di sinistramente riassuntivo in uno striscione esposto dai tifosi del Club Africain di Tunisi, durante una partita con il Paris Saint Germain, nel gennaio 2017, che così recitava: «Il calcio. Creato dai poveri e rubato dai ricchi».
Il calcio è metafora della vita, è danza tribale, teatro, sogno, battaglia. È aritmetica, geometria, ma anche fantasia, caos e immaginazione. «La bellezza è la prima cosa, la vittoria la seconda. L’importante è la gioia», diceva Socrates, calciatore brasiliano degli anni 80, dottore in medicina a tempo perso, punto di forza dalla nazionale brasiliana abbattuta da tre gol di Paolo Rossi ai Mondiali dell’82. «Il calcio non è una questione di vita o di morte, è qualcosa di molto più importante» concludeva drasticamente da parte sua Bill Sankly, uno che se ne intendeva, allenatore del Liverpool dal 1959 al 1974.
Mickaël Correia, giornalista francese indipendente, si è messo a scavare con meticolosità nel passato e nel presente alla ricerca di tutto ciò che è sovversivo, popolare, sociale, politico nel mondo del pallone. Dall’epoca del calcio fiorentino ai giorni nostri, con un’attenzione particolare a tutti coloro che, nel mondo, ne hanno fatto un mezzo di emancipazione, di opposizione alle dittature, di lotta alla povertà.
Il risultato è un libro, Storia popolare del calcio, dove il profumo non è quello dolciastro dell’erba degli stadi, ma quello da polvere da sparo della storia, delle rivoluzioni civili e industriali, delle partite giocate e vinte per fare dispetto ai dittatori, delle periferie più povere dove sbocciano campioni destinati a far prosperare un business mondiale. Un lavoro ricchissimo, denso di informazioni, che sottolinea il carattere sovversivo del calcio, sport “costruito dal basso”.
Ai nostri giorni il gioco del pallone rischia di dare l’addio alle sue radici autenticamente popolari e di diventare un prodotto da laboratorio. Ma proprio per questo il libro di Correia è un archivio preziosissimo di fatti che ci permettono di fare il punto sui primi centosessanta anni del calcio moderno. Viste alla moviola, sfilano le radici agricole e industriali del football, la nascita del professionismo e del calciomercato, la sofferta storia del calcio femminile, le partite manipolate dalle dittature, la politicizzazione del movimento ultrà in Italia, le finte e le derive di un calcio sempre più invaso dal business.
Fanno bene i tifosi del Liverpool a far vibrare di emozione gli stadi cantando il loro inno, You’ll never walk alone, qualunque sia il risultato della partita: «Anche se i tuoi sogni sono scossi e spazzati via dal vento, continua a camminare, continua a camminare con la speranza nel cuore, e non camminerai mai da solo». Calcio autenticamente popolare.
(“Storia popolare del calcio”, Mickaël Correia Leg Edizioni, Gorizia, pagg. 390, € 26)