Il Sole 24 Ore, 2 febbraio 2020
La minaccia dei virus non è eliminabile
Il coronavirus che sta scatenando il panico nel mondo è l’ennesimo segnale che pur disponendo di conoscenze e tecnologie potenti, la minaccia degli agenti infettivi non è eliminabile. Negli anni Settanta si credeva di aver messo definitivamente sotto controllo le epidemie. Il vaiolo e la peste bovina erano in via di eradicazione e anche per la poliomielite c’erano fondate speranze. Nel volgere di pochi anni emersero nuove infezioni, come Aids, Dengue, Ebola, Sars, etc, conseguenza di nuove opportunità per agenti zoonotici di passare dagli animali agli uomini. Inoltre, antiche e quasi dimenticate malattie riemergevano per selezione di ceppi più aggressivi, dovuta alla presenza di ospiti immuno-incompetenti negli ospedali, nuove vie di trasmissione come siringhe, aumentata mobilità planetaria, allevamenti intensivi, distruzione di ecosistemi naturali, abuso di antibiotici che producono varianti virulente e resistenti agli antibiotici stessi (sifilide e tubercolosi).
Dopo la scoperta del virus Hiv, mentre la pandemia di Aids iniziava a spazzare l’Africa, l’anziano microbiologo e premio Nobel Joshua Leberberg iniziò a predicare con insistenza che le epidemie causate o minacciate da agenti patogeni emergenti o riemergenti, sono fenomeni biologici, che acquisiscono un senso solo in una prospettiva evoluzionistica. Nel 1993 scriveva che «la storiografia della malattie epidemiche è uno degli ultimi rifugi del concetto di creazione speciale, e presta insufficiente attenzione ai cambiamenti dinamici da parte degli agenti infettivi».
Come osserva Frank Snowden, nel penultimo capitolo della sua storia delle più letali delle epidemie umane e dei sistemi medici usati per capirle e combatterle, l’obiettivo delle critiche di Lederbeg era «l’eradicazionismo», frutto di una concezione essenzialista o fissista delle specie microbiche, che considerava gli agenti infettivi solo cause prossime, necessarie e sufficienti, delle epidemie, che potevano essere sradicate disponendo di pallottole magiche o di qualche azione in grado di spezzare la catena di trasmissione. La transizione verso una visione evoluzionistica dei rapporti tra l’uomo e gli agenti infettivi ha consentito di leggere non solo le dinamiche di sviluppo delle infezioni, ma anche la loro storia per trarne insegnamenti utili a capire la logica evolutiva sottostante gli effetti delle epidemie umane.
Per centinaia di migliaia di anni i nostri antenati vissero in bande costitute da poche decine di cacciatori-raccoglitori, per cui erano infettati da agenti con bassa patogenicità e che causavano infezioni croniche, così da non uccidere tutti i componenti della banda e aumentare la probabilità di passare da un ospite all’altro. L’età delle infezioni acute iniziava con la transizione all’agricoltura, che portò alla creazione di insediamenti più densamente popolati, quindi più contatti e opportunità di trasmissione, e dove animali domestici o vettori quali roditori e insetti permettevano ad agenti più patogeni e capaci di trasmettersi di adattarsi all’ospite umano.
Ogni agente ha un proprio ciclo di vita, controllato da geni che sono polimorfi, e quindi ha tempi propri di replicazione, diversi effetti patologici o capacità di produrre immunità o trasmettersi ad altri ospiti suscettibili. L’epidemiologia matematica consente di spiegare e predire i cicli epidemici e i tassi di riproduzione di ogni malattia, e anche quali coperture vaccinali sono necessarie per impedire una specifica epidemia.
Dopo la transizione agricola, ancora per millenni le epidemie non erano frequenti e avevano a che fare con episodi bellici e spostamenti di eserciti: la cosiddetta peste di Atene del 430 a.C. (in realtà salmonellosi) scoppiò in concomitanza con la Guerra del Peloponneso. Nell’affollata Roma imperiale giunsero dal secondo secolo epidemie di vaiolo e forse febbri emorragiche. A sancire la fine della potenza imperiale fu la peste (vera) di Giustiniano del 541-42: uno studio recente sostiene che in realtà la mortalità causata da quella peste era di molto inferiore a quanto sinora creduto.
Nel Medioevo meno densamente popolato solo un’infezione a lento decorso, come la lebbra, poteva diffondere. Nel 1347, dopo anni di freddo e carestie arrivava in Europa la morte nera, che cancellava quasi metà della popolazione continentale, e che si sarebbe ripresentata a ondate in fino al Settecento. I cambiamenti ecologici e igienici relegarono la peste in Asia, mentre le guerre rimasero amiche delle epidemie: l’esercito di Napoleone Buonaparte fu decimato ad Haiti (1801-1803) dalla febbre gialla, e in Russia (1812)da tifo esantematico e dissenteria. Le epidemie tipiche dell’Ottocento, ricorda Snowden, furono colera e tubercolosi, che infierirono in Europa fino a quando non si scopri il meccanismo di trasmissione e la causa, cioè che il colera si diffondeva con l’acqua contaminata in assenza di impianti fognari, e la tubercolosi era trasmessa da un micobatterio. Il Novecento è stato il secolo della poliomielite, almeno fino all’introduzione dei vaccini, e dell’influenza, mentre il nuovo millennio è caratterizzato dalla riorganizzazione o devastazione degli ecosistemi planetari che hanno portare all’emergere di nuove infezioni, tra cui il virus che in questo giorni terrorizza la Cina.
Snowden intercala i capitoli sulle epidemie, raccontando le teorie usate dai medici per spiegare e affrontare le epidemie. Fino all’età ellenistica, le malattie erano mandate dalle divinità, infatti Apollo le scaglia sul campo degli Achei all’inizio dell’Iliade. Con la scuola ippocratica la malattia diventava un fenomeno naturale, dovuto a uno squilibrio di umori, che potevano essere rimessi in armonia con salassi, purganti/emetici e diete. Gli squilibri che causavano le epidemie, per Galeno, erano dovuti all’aria corretta e fino a metà Ottocento le ipotesi dell’aria cattiva o telluriche avrebbero prevalso in medicina. Pasteur, Koch e Lister dimostrarono che la specificità clinica delle malattie infettive era dovuto a specie microbiche responsabili della loro trasmissione ed andamento, e altri scoprivano scenari assai complessi, come l’esistenza di vettori, per esempio di artropodi che per esempio trasmettono la malaria e febbre gialla.
Grazie ai progressi scientifici della microbiologia siamo in grado di spiegare come la biologia di agenti infettivi e dell’ospite umano o del vettore, insieme all’ecologia, determinano i rischi, e sappiamo anche prevenirli con vaccini e farmaci. Una capacità mai così efficace e che migliorerà. Purtroppo, gli agenti trasmissibili sono troppo numerosi e l’evoluzione biologica troppo efficiente per le nostre comunque modeste possibilità di fare fronte ai veri padroni del pianeta.