Il Sole 24 Ore, 2 febbraio 2020
A tu per tu con lo chef Enrico Bartolini
C’è un passaggio, citatissimo, del Giovane Holden di Salinger nel quale il protagonista dice che lo lasciano senza fiato quei «libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira». È una dichiarazione che, applicata alla letteratura, e di conseguenza all’arte, mi ha sempre lasciato perplesso: di più, infastidito. È una dichiarazione da immaturi. Un autore e il suo libro sono cose affatto diverse, e niente autorizza a farti delle idee sull’autore – sulla personalità, sulla sua vita – da ciò che ha “prodotto” come espressione della sua arte.
Quando mi viene in mente questa cosa, Enrico Bartolini, lo chef più titolato d’Italia (8 stelle Michelin in 5 ristoranti) mi sta parlando da oltre mezzora, nel salottino del suo ristorante al Mudec. Il ristorante porta il suo nome, è un giorno qualsiasi e lo chef che ha riportato a Milano le mitiche tre stelle Michelin (mancavano da 26 anni e, prima di lui, le aveva, in città, il più importante chef italiano del Novecento, Gualtiero Marchesi) parla incessantemente. Seduto di lato a me, appare immacolato. Non un capello fuori posto, la barba tagliata di fresco con precisione millimetrica, in smagliante forma, non gesticola e quasi non si muove; affronta tutte le domande rispondendo con un discorso fluente, come chi è abituato ad aver pensato molto alle cose di cui, evidentemente, gli si chiede spesso conto. Rispetto a tanti altri suoi colleghi, anche di fama televisiva, Bartolini non ammicca mai: è amichevole, questo sì, ma estremamente professionale; concede confidenza ma con prudenza; mi fa effetto pensare che abbia solo 40 anni: è molto più saggio di quello che ci si aspetterebbe e credo che questo atteggiamento sia una cifra vincente del suo modo di essere, dunque del suo modo di cucinare. Ha le idee chiare ed è preciso nell’esporle. In tutta la nostra chiacchierata sorriderà poco, ma non perché si prende (troppo) sul serio. Parliamo di cibo, certo, di ristorazione stellata, di ricordi, di sapori, ma anche del futuro di Milano, di management, di lavoro, gestione di un team, ma partiamo parlando di... arte. Bartolini ha appena modificato il locale con qualche quadro nuovo: opere di Aldo Rota, perfettamente calzanti per l’ambiente. Ma mi stupisce di più quando mi dice che il nuovo logo (una E e una B che formano un quadrifoglio, o viceversa) lo ha disegnato da sé medesimo: mi stupisce perché è un logo che funziona, dico graficamente, e sebbene possa apparire naif che uno chef si crei il logo, ecco, questa è una di quelle manifestazioni nelle quali si esprime la sua complessa personalità.
«Non ho un gusto definito nell’arte», esordisce Bartolini, «sperimento diversi generi. Mi interessa, per esempio, il messaggio di un Banksy o della pop art, perché, da cuoco, capisco che vedo lì una modernità immediata, come in certe cucine». Dice che non è un collezionista, anche se ha qualche pezzo interessante: ora, per esempio, sta cercando una foto di Oliviero Toscani. Me la descrive, «una pecora e un cane che si sfiorano e si leccano il naso» e credo di riconoscere uno scatto di una vecchia campagna pubblicitaria del fotografo toscano, suo corregionale (Bartolini è di Castelmartini, in provincia di Pistoia): «La metterò accanto a un’altra opera, una pecora, che ho a casa. Credo staranno bene vicine». Spesso, anche parlando di godimento estetico, o di arte, riporta il discorso alla cucina, del resto l’esempio che ha più familiare e meditato di una cosa fatta bene, che custodisce complessità, gioco di squadra, ragionamento, sensibilità; regole e disciplina, mantenimento ed estro. «Spesso tra di noi in cucina ci diciamo: “Se non riusciamo a fare un piatto che sia più buono di una fetta di culatello stagionato, allora cosa ci stiamo a fare?”». L’iperbole serve a sottolineare qualcosa a cui, lo capisci, questo giovane-saggio chef crede fermamente: devi cucinare da dio per giustificare il tuo ruolo, la tua ambizione, la tua riuscita, o meno. E il tuo posto nel mondo.
Inevitabilmente, perciò, finiamo a parlare di Milano, che lui ha riportato al vertice della ristorazione italiana. «Un mio vecchio cliente una volta mi disse che mancava a Milano un ristorante dove andare in Rolls Royce». È una buona metafora per parlare di un certo modo di ostentare e curare la ricchezza e come “usarla”: e Bartolini, che ha anche “temuto”, se così si può dire, l’avvicinamento alla capitale finanziaria d’Italia, e che ha coltivato un sano rispetto “provinciale” verso certi modi d’essere di Milano, ricorda la risposta che diede a quell’amico; ed è una risposta che ha a che fare col modo con il quale lui pensa alla cucina – meglio, la filosofia – che deve proporre ai suoi clienti. Riavvolgiamo il filo dei ricordi. «La prima volta che ho vissuto un’esperienza emozionante con il cibo è stata a Parigi. Avevo un milione in tasca e sarebbero stati i soldi che avrei avuto da lì a un mese, prima che ne arrivassero altri. Andai a cena da Pierre Gagnaire, mangiai e bevvi, persino troppo. Era il marzo del 1999. Però, poi, ho “capito” negli anni cosa era stata, per me quella cena. E ancora oggi la ricordo. Quella spesa non era esagerata: li valeva tutti». Ha prodotto memoria, che forse è la cosa più interessante nella cucina: questo è andare in certi ristoranti, mangiare certi piatti esclusivi, perfetti, inimitabili. Darci un’esperienza, e un’emozione, che ricorderemo a lungo. «L’altro giorno è venuto qui da me un tavolo di persone che aveva un limite nel budget. “Che signori”, ho pensato, che lo hanno ammesso e dichiarato. Abbiamo trovato con loro un accordo: e sono stato molto attento a dire ai miei collaboratori che l’esperienza emotiva di quel tavolo doveva essere comunque perfetta, perché la grandezza dell’esperienza è nelle sfumature».
Bartolini è a suo agio con le domande facili e banali per gli chef – lui che non ha costruito una mitologia del sé stesso cuoco (il tipico racconto della cucina della mamma e così via). E sì, gli chiedo della cosa più buona da mangiare («un riso buono bollito, un filo d’olio buono, il parmigiano buono», sottolinea sempre la bontà dell’ingrediente, «una insalata croccante, lavata in acqua e ghiaccio e lasciata riposare»); o il ricordo di un piatto particolare («un caramello con i pinoli: per me fu la scoperta dello zucchero, a casa proibito»), e poi mi racconta di una zia che cucinava per lui: «il valore di qualcuno che cucina per te». Ma non si scompone, e, anzi, mi appare anche più deciso quando racconta i dettagli economici e gli aspetti forse più prosaici dell’essere imprenditore. Lui che ha, per ora, «sei ristoranti, e 22 casse fiscali, perché ogni attività, dal catering agli eventi, deve essere gestita con i modi giusti», guarda alla sua esperienza imprenditoriale e creativa (anche) con occhi da manager consumato. Gli chiedo se lo chiamino spesso a fare lezioni di orientamento per i giovani, perché sarebbe perfetto. «Anche ieri, l’ultima, allo Iulm».
Parla del suo lavoro con la squadra (mi presenterà, poi, tutti i collaboratori, uno per uno, per nome, dedicando una parola, una battuta e un sorriso a ciascuno), parla, in maniera imbarazzantemente positiva di Remo e Mario Capitaneo, i fratelli che lo accompagnano nella sua avventura. Gli chiedo cosa penserebbe se Remo, il suo braccio destro (e forse qualcosa di più: è con Bartolini da più di dieci anni), aprisse un suo ristorante. «Glielo propongo tutti i giorni, mi danneggerebbe andandosene, ma se quello serve a perfezionare il suo percorso...». Generoso, verso gli altri, esigente su sé stesso. Al limite del maniacale. «Mantenere le tre stelle adesso è un obiettivo. Quando ottenni la seconda stella, per me fu un salto deciso: ho avuto l’occasione di girare il mondo, di perfezionare l’inglese, di capire cosa e come mangiano all’estero e come viene percepita la cucina italiana». Bartolini ha un’idea nitida di cosa significhi per un cuoco essere premiato. E ha una percezione molto chiara della competitività e pur non stressandola, la rispetta moltissimo. «Se un cuoco non viene premiato, può viverla come una bocciatura. Le stelle sono il riconoscimento, e sono uno stimolo, la giusta ambizione che dobbiamo avere perché con costanza, con procedura impeccabile riusciamo a raggiungere determinati obiettivi». L’ambizione del migliorare è un pungolo costante (perfezionare procedure, gesti, metodi) che lo ossessiona nel confronto quotidiano con i collaboratori. Sa e dice di vivere in una città, Milano, che è un posto dove si mangia bene, nomina molti colleghi elargendo complimenti a piene mani (e ricorda la sua prima visita da Cracco, allora ancora da Peck), dice che gli piace moltissimo mangiare e vorrebbe fare, potendo, solo il cliente. «Spero che i colleghi che hanno ora due stelle arrivino a tre»: ed è qualcosa che sembra dica sinceramente. Gli chiedo in maniera diretta se questa estrema pacatezza, e questa umiltà, siano davvero tratti del suo carattere. In questa conversazione ha toccato molti punti, ma non è stato capace di un solo pensiero negativo, ha sorriso pienamente solo parlandomi di un recente episodio riguardante uno dei suoi tre figli (il più grande, che pare abbia un palato notevole). Penso che l“uomo delle stelle” abbia interessanti piani per il suo futuro, ma non me li svela. Mi dice che fra 5 anni si vede «ancora con la voglia di correre tutte le mattine, di poter stare del tempo con i bimbi, di passare molto tempo a pianificare i messaggi culturali del nostro lavoro». È questa la frase che più lo identifica: sa che svolge, meticolosamente, un lavoro cha ha a che fare con la cultura. Lui ora va in cucina, e io al tavolo: assaggio solo alcuni piatti. La qualità del servizio, il coraggio di certi accostamenti, il “rito” del pranzo: tutto conferma quello che già si sa di questo chef e delle sue creazioni. Non c’è bisogno certo del mio parere: qui le stelle le vedi scintillare facilmente. Del resto, cosa altro aspettarsi?
E Salinger? Ecco. Forse la chiacchierata di oggi, mi ha fatto ricredere su quella frase. La cosa più interessante della mattina con Enrico Bartolini non è stato il pur memorabile pranzo: non è solo lì la vera eccellenza di questo artista della cucina. La conversazione prima del pranzo è la percezione della grande qualità umana che lo contraddistingue. Sentirlo parlare, con quella pacatezza, è un freno al nostro egocentrismo, un inno al miglioramento, all’impegno, una ferma idea di lavoro, costanza, umiltà, dedizione. Penso che questo ragazzo serio e determinato sia prima di tutto una grande persona, e poi (o di conseguenza) un grande chef. Non esistono stelle per certificarlo ma, alle volte, le impressioni di chi ti sta accanto, anche per poco, possono contare. E, ogni tanto, le parole degli scrittori sono più profonde di quello che ti sono sembrate fin lì.