La Lettura, 2 febbraio 2020
La contadina macedone che sussurra alle api
Hatidze Muratova si prede cura delle «sue» api. Sussurra e canta loro vecchie canzoni, tramandate di generazione in generazione. Come l’ancestrale tecnica che utilizza per allevarle. La prima volta la vediamo attraversare un’immensa radura e arrampicarsi sull’orlo del dirupo. Indossa una camicetta gialla, una lunga gonna marrone e un foulard verde brillante con grossi fiori gialli e bianchi avvolto attorno al capo. Arrivata a destinazione, a volto scoperto, stacca dalla parete una lastra di pietra. Il ronzio diventa sempre più insistente. Ed ecco le api, strette nel loro nido; ricoprono i favi, densi di miele. Hatidze ha lasciato la sua casa nel villaggio di Bekirlija (nel comune di Lozovo), isolato e quasi abbandonato sulle montagne della parte centrale della Macedonia del Nord, e si è messa in cammino per raccogliere il miele. Ne prenderà solo metà. Il resto lo lascerà alle api.
Nata nel 1964, Hatidze Muratova è una donna macedone di origini turche. Il volto cotto dal sole e scavato da profonde rughe, è una delle poche apicoltrici selvagge rimaste in Europa: è lei la protagonista di Honeyland, documentario macedone diretto da Tamara Kotevska (Prilep, 1993) e Ljubomir Stefanov (Skopje, 1975) candidato a due premi Oscar: migliore documentario e miglior film internazionale.
Honeyland segue Hatidze nel lungo percorso quotidiano verso i luoghi in cui custodisce le api. E, poi, verso Skopje, la capitale, per vendere a pochi euro il suo miele. E, ancora, il ritorno alla piccola casa in pietra che condivide con l’anziana madre malata. Hatidze vive in perfetta simbiosi con la natura. Non chiede mai troppo alle api: sa che la sua vita e quella della madre dipendono dal miele che producono, ma vuole salvaguardare la loro sopravvivenza.
La macchina da presa segue tutto, talvolta da lontano, talvolta da molto vicino, senza che però mai nessuno ne percepisca la presenza. Tra il ronzio delle api e le musiche dei Foltin, band macedone, coglie i dialoghi in un antico dialetto turco che nemmeno i registi riuscivano a capire e si concentra sulle immagini: le mani di Hatidze che sembrano indifferenti alle punture dello sciame; la stanza spoglia, il letto su cui è sdraiata la madre, l’immensità e lo splendore della natura balcanica avvolta nella sola luce naturale.
L’improvviso arrivo di una famiglia nomade turca (che ha sorpreso pure i registi e ha trasformato il film in qualcosa di diverso) cambierà tutto. Hussein Sam, la moglie Ljutvie e i loro sette figli – accompagnati da una mandria di bestiame —, sono accolti da Hatidze come un gioioso sollievo alla solitudine. I bambini invadono i suoi spazi tra liti e bagni nel fiume. Hatidze condivide con Hussein i segreti dell’apicoltura. Ma Hussein, spinto dal bisogno di soldi per la sua famiglia, inizia ad allevare le api senza seguire alcuna regola, neppure quella aurea suggerita da Hatidze: «Metà miele per noi, metà miele per le api». Questo distruggerà il precario equilibrio con la natura, così attentamente assecondato da Hatidze.
L’avventura di Honeyland, titolo originale Medena zemja, è iniziata nel 2015 e la lavorazione del film ha richiesto oltre tre anni e 400 ore di girato. Honeyland è la seconda collaborazione tra Tamara Kotevska e Ljubomir Stefanov, dopo il documentario Lake of Apples (2017) sul Lago Prespa promosso dal Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp). Kotevska e Stefanov avrebbero dovuto girare un cortometraggio sul fiume Bregalnica e la natura che lo circonda. Ma durante i primi sopralluoghi nella remota regione montana, hanno incontrato Hatidze. O meglio le api li hanno condotti da lei. «Abbiamo trovato gli alveari protetti tra le intercapedini di un muro – racconta Kotevska – e siamo rimasti affascinati da quello che era un lavoro umano a stretto contatto con la natura».
Nel villaggio, con i registi, c’erano solo i direttori della fotografia (Fejmi Daut e Samir Ljuma), il montatore e produttore (Atanas Georgiev) e la designer del suono (Rana Eid). Raccontano che potevano girare solo per pochi giorni prima di lasciare il villaggio per i rifornimenti. Accampati in tende, hanno guadagnato la fiducia di Hatidze, quella della madre e della famiglia Sam e hanno restituito la loro storia così come l’hanno vissuta. Per poi riportarla dallo schermo alla realtà: sul sito honeyland.heart, gli spettatori sono invitati a fare una donazione in cambio di un barattolo di miele per aiutare Hatidze (la madre è morta durante le riprese) ma anche i Sam (i figli nel frattempo sono diventati otto) e la comunità locale.
Poi il 28 gennaio 2019 Honeyland ha debuttato al Sundance Film Festival, dove è stato il film più premiato con tre riconoscimenti nelle categorie dedicate ai documentari (World Cinema Documentary Competition); ed è iniziato il viaggio tra festival e sale di tutto il mondo (in Italia è passato da Nuoro per isReal Festival e da Firenze per il Festival dei Popoli) costellato da premi e critiche eccellenti: il critico del «New York Times», A. O. Scott, l’ha scelto come film del 2019 e lo ha definito «epico, un’allegoria ambientalista sulla vita vera e, non ultimo, una commedia pungente sul problema senza tempo dei vicini sconsiderati».
Nella notte tra il 9 e il 10 febbraio, quando saranno annunciati i vincitori degli Oscar, nella categoria migliore documentario Honeylanddovrà vedersela con American Factory di Steven Bognar e Julia Reicher, film Netflix prodotto dai coniugi Obama; il brasiliano Democrazia al limite (The Edge of Democracy) diretto da Petra Costa, sempre Netflix; ma anche l’autobiografico For Sama diretto dalla regista siriana Waad al-Kateab con Edward Watts e The Cave di Feras Fayyad (a cui è dedicato l’articolo qui accanto) sulla guerra in Siria. E pure i contendenti al miglior film internazionale sono tutti di gran peso: il coreano Parasite di Bong Joon-ho (6 nomination in tutto, tra cui miglior film e migliore regia), Dolor y gloria di Pedro Almodóvar (Spagna), Corpus Christi di Jan Komasa (Polonia), I miserabili (Les Misérables) di Ladj Ly (Francia).
Ma il film macedone ha già fatto la storia degli Oscar. È la prima volta che un film viene candidato sia come migliore documentario che come miglior film internazionale (è la dicitura appena introdotta al posto del miglior film straniero perché «rappresenta meglio la categoria e promuove una visione positiva e inclusiva dell’arte cinematografica come esperienza universale»). La doppia nomination è stata accolta come una svolta epocale (un documentario non è mai entrato nella categoria miglior film), una prova, come ha sottolineato il regista Stefanov, che «documentario e finzione sono la stessa cosa» e che alla fine «una buona narrazione è una buona narrazione».