La Lettura, 2 febbraio 2020
Cina-Europa, le vie della peste nera
Drammatiche e angoscianti sono le immagini che ci giungono da Wuhan, nella provincia cinese dello Hubei. Mascherine, gente impaurita, medici indaffarati, ospedali pieni e altri in rapida costruzione. Ma chi potrebbe immaginare che scene simili quella città le ha già viste, scene altrettanto drammatiche – anzi molto di più – davanti a un flagello inimmaginabile?
Fu infatti a Wuhan che si scatenò il primo grande focolaio che avrebbe sconvolto il volto dell’intera Eurasia. Qui apparve, in maniera evidente, la grande protagonista del XIV secolo: la peste nera. La pandemia capace di oscurarne ogni altra nella storia dell’umanità. Un prodigio di distruzione, in grado di espandersi con una velocità inusitata, di abbracciare il Vecchio Mondo e devastarlo in profondità.
Tutto nasce dal bacillo della Yersinia pestis, scoperto nel 1894 da Alexandre Yersin. Il bacillo è resistente: può restare per settimane o anche per mesi silente e contaminare i suoli e insidiarsi negli animali, per via aerea o per ingestione. Preferisce i mammiferi non troppo grandi: marmotte, gerbilli, scoiattoli, furetti, arvicole. Finché la Yersinia vive con loro, la possibilità di contagio è relativa. È quando incontra altri compagni di viaggio che le condizioni fatalmente cambiano. Ciò accade quando incrocia un altro tipo di roditore: il rattus rattus, il topo nero. È lui il vero tramite che trasporta la Yersinia dai boschi abitati dai mammiferi alle comunità dove vive un’altra specie, l’uomo. Per fare questo la Yersinia si serve però di un cavallo di Troia: un parassita, la pulce. Che, anch’essa, una volta ingerito il bacillo muore. Ma, perché muoia, decorre un tempo. Nel quale la pulce mangia voracemente la superficie dell’organismo che la ospita – il topo o l’uomo – poi penetra nel corpo e finisce per inoculare il bacillo. Il gioco è fatto.
Le cose pare però che andassero anche diversamente, come spiegano oggi i biologi. Perché questa trasmissione da ospite a ospite non appare rapidissima. Allora bisogna pensare non a un solo vettore, ma a tanti vettori. Vari tipi di pulci dei ratti, come la Xenopsylla cheopis o il Nosopsyllus fasciatus, o altri parassiti: i pidocchi o la Pulex irritans degli uomini. E verosimilmente tutti agirono parallelamente e ognuno cooperò, per proprio conto, a trasportare lo stesso carico di morte.
La Yersinia scelse anche un’altra strada, respiratoria. È la forma polmonare della peste, la più micidiale. Tuttavia, non fu la principale forma di contagio. Era pericolosissima per chi stava vicino all’ammalato, quando cominciava a espettorare copiosamente, ma non si rivelò la più dannosa. Quella che vinse, vinse grazie a un esercito sterminato: di roditori, di ratti, di pulci, di pidocchi.
Dove cominciò questo disastro ecologico? E quando? Per i contemporanei, come Giovanni Villani, la fonte di ogni disgrazia era un mondo lontano: il Catai, diceva. Insomma, la Cina. E, come lui, la pensavano tutti, come Giovanni Boccaccio, che prese spunto dalla peste per il suo Decameron. Poi, nel tempo, si affermarono altre opinioni, con l’idea che tutto fosse cominciato nel centro dell’Asia. Oggi, grazie all’ingegneria genetica, abbiamo delle risposte precise. Infatti, là dove non sono arrivati gli storici, con le loro fonti, giungono adesso altri studiosi del passato, i tracciatori di Dna e di genomi. Questi scienziati lo sanno bene: nella sua vita la Yersinianon è rimasta a guardare. Si è trasformata, con altre genealogie, polimorfismi, variazioni e modifiche.
La ricostruzione filogenetica a che risultati è giunta? Secondo la scienziata Giovanna Morelli, autrice di uno studio pubblicato nel 2010, il bacillo si sarebbe evoluto proprio in Cina. La stessa traccia è stata seguita dal genetista Mark Achtman, il quale nel 2012 ha spiegato che, tracciata la popolazione di Yersinia, ha trovato nel grande Paese asiatico non solo quella originaria ma anche le sue derivazioni, in molteplici branche. Mentre, ancora più recentemente, Cui Yuyun, con il suo team, nel 2013 ha isolato 133 genomi del bacillo.
Se guardiamo l’onda epidemica su scala planetaria, le date di inizio della pestilenza fissate nel 1348-1349 appaiono poco convincenti, in quanto sono quelle del massimo dispiegamento, quando essa raggiunse persino le rive delle isole britanniche e le coste del Mare del Nord. Invece la cronologia è più lunga e risente di varie evoluzioni, dalla fase endemica a quella epidemica e poi pandemica. Secondo Cui tra queste fasi trascorrono circa una settantina d’anni, diciamo dal 1268 al 1339. Altri studiosi le restringono a 50-60 anni, tra il 1282 e il 1343. Gli anni Quaranta del XIV secolo sono quelli della virulenza. Che corrispondono – fatalmente? O per uno stretto legame tra ambiente ed epidemie? – a un violento aggravamento delle condizioni climatiche del pianeta. In uno scenario meteorologico devastante il viaggio della Yersinia raggiunse il suo culmine.
Vediamo ora come, più o meno dagli anni Trenta in poi, procedettero le cose. Il cammino biologico del contagio inizia nell’altopiano del Qinghai, regione oggi cinese ma storicamente tibetana. Tuttavia è proprio a Wuhan che scoppiano i primi e più violenti focolai e da lì la peste si diffonde, città per città, all’interno dei confini del più grande e popolato impero del mondo. È in questo contesto che aumenta la sua virulenza e articola la sua forza. Insomma, dilaga.
La Yersinia a questo punto sceglie i suoi percorsi e lo fa benissimo. Dalla Cina viaggia piuttosto in fretta. A una velocità media valutabile tra mezzo chilometro e un chilometro ogni settimana. Ha tre strade davanti e le prende tutte: a sud, attraverso il Pamir, il Punjab, l’Indo, l’Oceano Indiano e il Mar Rosso; a sudovest, attraverso Samarcanda, il Mar Caspio meridionale, la città di Tabriz, da dove riesce a raggiungere il Mar Nero, Trebisonda, Costantinopoli e gli scali del Levante; infine, a ovest, lungo la rotta mongola, lungo lo Syr Daria, la città di Otrar, il Caspio settentrionale, il Volga, ridiscendendo poi attraverso il fiume Don fino ai centri commerciali genovesi sul Mar Nero, come Tana o Caffa. Come ha fatto a viaggiare così tanto e così velocemente? Semplice. Ha avuto tanti compagni di viaggio. Ha impiegato mercanzie, colli, carri, carovane, dromedari, pulci, ratti e uomini, che si spostano con la Yersinia, si ammalano e muoiono con lei.
In un primo tempo la diffusione non è così rapida. Il bacillo impiega parecchio per arrivare a duemila chilometri di distanza dal Qinghai: la comunità nestoriana del lago di Issyk-kul, nell’attuale Kirghizistan, registra, nel biennio 1338-1339, per la prima volta la peste in Asia centrale. Da questa zona mancano altri duemila chilometri per giungere al Caspio, alle terre dell’Orda d’Oro. L’epidemia accelera. La velocità passa a due terzi di chilometro al giorno, 250 all’anno. Adesso è rapidissima. La sequenza è agghiacciante e pervasiva. Non un’ondata di correnti continue che si spargono e dilagano, ma con focolai che si schiudono improvvisi, l’uno dopo l’altro, senza un ordine preciso.
La peste nel 1347 tocca l’India, specialmente la regione del Sindh (oggi Pakistan). Gedda e La Mecca sono devastate nel 1348 e nel 1349, contaminate dalle folle di pellegrini. Nello Yemen il contagio arriva nel 1351. Giunge prima, nel 1349, a Bagdad, a Mosul, a Bassora, sul Golfo Persico. Flagella la Palestina e, da qui, se ne va a nord e colpisce Acri, Sidone, Beirut, Tripoli, Damasco. E sale ancora, verso Aleppo e Antiochia. Raggiunge il Mar Rosso, l’Africa orientale, la Nubia, il Nilo, l’Egitto. Già nel 1348 è ad Alessandria e percorre la costa verso ovest, fino alla Cirenaica, a Barqa, giunge nel Maghreb e da qui devia a sud, lungo le carovaniere transahariane, dove dà un colpo fortissimo a una società già in crisi per il mutamento climatico e la desertificazione crescente. Yersinia invade lentamente il delta del Nilo, a partire dall’aprile del 1348, in settembre arriva al Cairo, scende verso l’alto Egitto nel febbraio del 1349. Anche l’Etiopia pare venga colpita in maniera massiccia: le fonti raccontano di una violenta epidemia che colpisce il regno, con migliaia di morti, così tanti che «non si sapeva come interrarli».
Per quanto riguarda l’Europa, tutto comincia nel Mar Nero, nella città genovese di Caffa, uno dei punti di massima espansione del mercato internazionale del tempo. Qui nel 1346 c’è la guerra. I mongoli assediano la città e per sconfiggerla usano l’arma batteriologica: lanciano con le catapulte oltre le mura cadaveri contaminati. Da qui il contagio si diffonde. Dal biennio 1347-1348 l’epidemia avanza rabbiosa come un fiume in piena. Di mese in mese la peste attraversa il Mediterraneo, arriva a Costantinopoli, a Trebisonda, in Grecia, a Cipro, in Sicilia. Dalla città di Messina scala il Mezzogiorno e tocca Napoli e Roma. Si insinua nei grandi collettori marittimi di Genova e Venezia, varca le Alpi e si scatena dappertutto, fino alle isole britanniche e oltre.
Il bilancio sarà senza precedenti. Le città si spopolano. La gente scappa. Lo scenario dell’intera Eurasia si incrudelisce. I morti in Europa pare che siano stati in totale circa 25 milioni, un terzo dell’intera popolazione. Nel mondo i numeri sono ancora più terrificanti, con stime che oscillano da un minimo di 75 milioni di persone a un massimo – eccezionale – addirittura di 200 milioni. Una bomba ecologica che ammazzò gli uomini ma conservò intatti edifici, oggetti, beni, terre. Che lasciò un’umanità ferita in profondità da un capo all’altro del pianeta, dalle coste cinesi al Mediterraneo e all’Oceano Atlantico.
Il disastro fu tale che solo più di un secolo dopo, nel corso del Cinquecento, si riuscì a raggiungere gli stessi livelli demografici del tempo prima del contagio.