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 2020  febbraio 02 Domenica calendario

David Grossman e Paul Auster a colloquio

Qualche tempo fa, dopo aver tenuto una lettura a Brooklyn, David Grossman è andato a cena da Paul Auster e sua moglie, la scrittrice Siri Hustvedt, come fa sempre quando è a New York: «Era inverno: devi avere freddissimo, hai un cappotto leggero, mi hanno detto, e me ne hanno dato uno pesante che uso ancora oggi. Tutte le volte che lo indosso mi viene in mente Paul e penso che mi stia abbracciando». Comincia in modo leggero e confidenziale lo scambio tra due dei maggiori scrittori contemporanei, David Grossman e Paul Auster. «La Lettura» li ha fatti incontrare in una triangolazione telefonica che ha collegato Milano, New York e Gerusalemme. Il nuovo romanzo di Grossman, La vita gioca con me (Mondadori), è stato l’occasione per una conversazione sui temi capitali del mestiere di scrivere, a partire da alcuni filoni che accomunano la voce intima e progressista dell’israeliano con quella del maestro della fiction newyorkese, creatore di implacabili meccanismi narrativi in cui il caso, il destino, l’ambiguità dell’esistenza giocano ruoli da protagonisti.
In principio però c’è l’amicizia. «Ci siamo incontrati nel 1997, quando sono andato per la prima volta in Israele – racconta Auster —. Un amico comune mi ha detto: devi andare a trovarlo. L’ho fatto, abbiamo avuto una conversazione fantastica e dall’inizio mi sono sentito suo amico. Non ci vediamo spessissimo, purtroppo, però David me lo porto in giro, per così dire, anche quando non c’è, anche se non ci parliamo per mesi. Sono più vecchio di lui di sette anni, quindi io sono il fratellone, lui il fratellino. È uno dei migliori narratori che abbiamo al mondo oggi. Scrive con passione, intelligenza, umanità». Tra loro c’è una stima reciproca che va oltre i normali scambi di cortesia tra colleghi. «E adesso abbiamo la possibilità di dircelo, cosa che non facciamo mai – interviene Grossman —. Paul nei suoi libri sfida il lettore intellettualmente ed emotivamente, sa stare a un altissimo livello filosofico e al tempo stesso non perde mai l’intimità. Nei suoi romanzi la realtà dei personaggi è tangibile, viva, molto rilevante: c’è il senso di alienazione, la solitudine, il bisogno di amore. Sono un’avventura spirituale per noi lettori». 
Il punto di partenza è, naturalmente, la scrittura. 
PAUL AUSTER — Devo iniziare io? 
DAVID GROSSMAN — Sì certo, sei tu il più vecchio...
E poi nel «Leviatano» dice: «Nessuno può dire che cosa dà origine a un libro, tanto meno la persona che lo scrive»...
PAUL AUSTER — Tanto per cominciare io sono uno scrittore che ha bisogno di tanto tanto tanto tempo per sviluppare un’idea. A volte vado in giro per anni con una cosa in mente prima di mettermi seduto e iniziare a scriverne. Può essere una cosa piccolissima, un ricordo, uno sguardo, un dettaglio. Poi – visto che sia io che David scriviamo storie e le scriviamo con parole sulla carta – bisogna dire che anche la lingua ha una parte molto importante. Ogni storia nasce con un certo ritmo, una musicalità diversa. Quindi c’è una scintilla, magari sei mesi dopo ne scatta un’altra che si ricollega alla prima e improvvisamente mi trovo ad avere una interazione dinamica tra due forze. E poi entrano in gioco un terzo, un quarto, un quinto elemento e comincio a formulare una narrazione che in qualche modo è sempre collegata alla musica che verrà suonata. È qualcosa di misterioso che non riesco veramente a capire e spiegare. Non sono un giornalista che va a cercare storie. Semplicemente mi faccio i fatti miei e poi succede qualcosa che mi motiva, mi spinge a cominciare a scrivere. Non so se è così anche per te, David... 
DAVID GROSSMAN — Tutti i miei libri sono iniziati in un modo inaspettato. Immediatamente riconosco che c’è una storia interessante da raccontare anche se non so esattamente il motivo. Mi capita di chiedermi: ma perché questa idea è rilevante per me? Non faceva parte del mio programma, o del mio mondo. Perché allora mi comunica qualcosa? Perché mi rimane in mente, a volte anche quindici o vent’anni? E poi, quando comincio a scriverne, mi rendo conto che non solo era importante, ma addirittura essenziale. Ho la sensazione che grazie a tutte le storie riconosco in me stesso qualcosa di nuovo, che non sapevo prima o non avevo riconosciuto. In tutti noi ci sono così tante opzioni per essere presenti in questo mondo: se io fossi nato in una famiglia religiosa e non laica, o in una famiglia che incoraggia le arti e non le scienze... tutta la mia vita sarebbe stata completamente diversa. Quando scriviamo cerchiamo di portare alla luce queste opzioni latenti di vita. È la forza della letteratura, non soltanto per il lettore ma anche per lo scrittore, perché le storie che scriviamo ci leggono, leggono noi scrittori in un modo che non sarebbe possibile altrimenti, nelle conversazioni con gli amici, attraverso il sogno o la psicoterapia. È un rapporto così affascinante, attivo e dinamico. Non sono solo io che scrivo la storia, ma sono scritto dalla storia. Costantemente. E qui sono d’accordo con quello che stavi dicendo tu, Paul. C’è una versione, poi un’altra, poi un’altra ancora, una stratificazione, come togliere un po’ di cataratta dal nostro occhio, o strati dalla nostra anima per poter andare sempre più in profondità. 
PAUL AUSTER — Allo stesso tempo però io non inizio a scrivere finché non ho la sensazione che la storia è necessaria, che ne va della mia vita. Non è un lavoro il mio, è una necessità. Spesso ho un’idea generale della storia, con un inizio, uno sviluppo, una fine. Non creo un piano elaborato, è semplicemente un’idea. Magari butto giù qualche nota rapidamente, qualcosa che abbia significato per me. Poi inizio a scrivere e scopro qualcosa di più di ciò che ho pensato precedentemente. Spesso comunque le cose cambiano rispetto ai miei piani e devo trovare un altro modo per avvicinarmi. La cosa importante, e credo che tu David sia d’accordo, è che quando scrivi fiction devi crederci, devi credere che sia vera e se c’è qualcosa che non ti piace devi comunque abituarti all’idea. 
Come si fa a crederci? 
DAVID GROSSMAN — Io so che devo sempre iniziare dalla corporeità. Tutti i personaggi di cui scrivo li devo capire prima di tutto in base a come parlano, come si muovono, come amano, come mangiano, come si vestono o portano i capelli. Piccoli dettagli del corpo che per me sono essenziali. Soltanto quando capisco qualcuno anche dal punto di vista fisico sono in grado di scriverne e posso sviluppare una sua visione del mondo, una sua ideologia, una sua biografia. Quando lavoravo a Qualcuno con cui correre, la storia di due giovani a Gerusalemme, non avevo la percezione della ragazzina protagonista, una sedicenne. Ero alla ricerca di qualcuno che potesse avere il suo corpo, il suo viso. Un giorno sono entrato in un negozio di computer nella zona in cui vivo e improvvisamente mi sono imbattuto in questa ragazza dell’età giusta. Ho visto solo il suo profilo, la sua guancia. C’era qualcosa di tenero, di fragile, ma al tempo stesso di assertivo, determinato. A quel punto ho capito che quella era la ragazza che stavo cercando. Sentivo già la sua voce, che avevo tratto da un’altra donna, e soltanto a quel punto sono stato in grado di scrivere di lei. 
Quindi le storie sono possibili alternative di vita che ognuno ha dentro di sé e la letteratura permette di far vivere queste esistenze potenziali. 4321 di Auster indaga proprio questo: le quattro vite possibili, non vissute eppure reali, di Archie Ferguson. 
DAVID GROSSMAN — Ho letto 4321 con entusiasmo, in ebraico, qualche mese fa. Uno dei punti di forza del romanzo è proprio questo. Una persona descrive la vita di altre tre. Tutti e tre si chiamano Archie Ferguson, tutti e tre vengono dal mondo letterario, ma ognuno di loro si muove in una direzione diversa. Ciascuna di queste storie è un’irradiazione dalle altre e questo crea un personaggio letterario forte, tangibile, dove c’è il protagonista, ma anche l’aura di tutte le sue possibili vite. E sono tutte attive, non sono morte o congelate. È quello che mi piace di più. 
PAUL AUSTER — Scrivere narrativa ti porta a parlare di personaggi difficili, che fanno cose terribili che non ti passerebbero mai per la testa. Come scrittore devi entrare nei panni di qualcuno che non sei tu. Ci ho pensato tantissimo e credo che lo scrittore sia come un attore: quel personaggio sei tu stesso, devi rappresentarlo. Mettiamo di dover scrivere di un assassino: io non ho mai ucciso nessuno nella mia vita, però a volte sono stato arrabbiato e quindi capisco come ci si possa arrabbiare al punto da perdere la ragione e cominciare a colpire un’altra persona fino a ucciderla. Posso immaginarlo ma devo entrare profondamente in me stesso ed esplorare tutti i casi in cui mi sono arrabbiato, tutte le situazioni che ho vissuto, per poi amplificarle. Solo così posso abitare in modo credibile quel territorio che non sono io ma che comunque fa parte di me. Ecco perché la scrittura è così stancante, perché ti toglie tantissimo. Se allontani lo sguardo non fai bene il tuo lavoro. Quindi credo che scrivere richieda anche un coraggio morale oltre a un grosso coinvolgimento. Devi cercare di stare molto vicino a quella che tu ritieni la verità.
Peter Brook ha detto: «Nel mio lavoro cerco di combinare la vicinanza del quotidiano alla distanza del mito. Perché senza vicinanza non ci si può commuovere, e senza distanza non ci si può stupire». È questo la letteratura? Un equilibrio tra quotidiano e mito? 
PAUL AUSTER — Peter Brook è un vero genio. Ho letto questo suo commento in un’intervista pubblicata sul «New York Times». Con queste due frasi è riuscito davvero a descrivere la natura dell’arte, le aspirazioni dell’artista. Non ne ho mai letta una migliore, l’ho abbracciata completamente. Penso che quello che cerchiamo di fare sia proprio questo, l’una o l’altra da sole non sono sufficienti. 
DAVID GROSSMAN — La dimensione etica di cui prima parlava Paul ha a che fare con il fatto che noi cerchiamo di capire altre persone, altri esseri umani e quindi non vogliamo proiettare su di loro il nostro punto di vista, vogliamo entrare così profondamente in loro da poter scrivere dal loro punto di vista, anche quando è completamente in contraddizione con noi, con la nostra vita. Tu non hai mai ucciso nessuno e nemmeno io. Però, per esempio, ho parlato con il comandante di un campo nazista, uno che ha ucciso molte persone. È stata una delle esperienze più difficili della mia vita di scrittore perché era importante per me capire come un essere umano normale – questo erano la maggior parte dei nazisti – potesse diventare un mostro, potesse essere in grado di cancellarsi completamente e cancellare altri esseri umani, senza provare rimorso. Tutti i personaggi di cui scriviamo ci chiedono questo impegno morale assoluto: devi credere nella storia, con tutta l’intensità possibile. È come avere un grande forno e cuocervi dentro tutti gli ingredienti – i personaggi – in modo che non rimanga niente di crudo, o di poco cotto. 
Nel suo nuovo romanzo, «La vita gioca con me», Grossman assume un punto di vista femminile, quello di Ghili che racconta, ma anche quello di sua madre Nina e di sua nonna Vera. Le tre donne partono insieme verso la Jugoslavia. Da lì arriva Vera, ora novantenne: devono salvare la memoria di ciò che è successo, ricostruire ciò che è accaduto nella prima parte della vita di Vera, quando, ebrea croata, si è innamorata di un giovane serbo e poi è stata deportata nel campo di rieducazione di Goli Otok. Anche in «A un cerbiatto assomiglia il mio amore» si era messo nei panni di una donna, Orah. 
DAVID GROSSMAN — Quando scrivevo Il cerbiatto — romanzo che Paul mi ha aiutato a rivedere della traduzione inglese, cosa di cui gli sono ancora assolutamente grato – io non riuscivo a conoscere Orah, e volevo farlo, quasi in senso biblico. Eppure rimaneva impenetrabile al punto che mi sono detto: qui sto perdendo il libro. Allora le ho scritto una lettera dicendole: ma perché sei così dura con me? Perché non ti lasci andare? Ma non era Orah che doveva lasciarsi andare, ero io che dovevo abbandonarmi all’opzione di entrare nella sua vita. A quel punto il libro si è scritto da solo e io ho avuto l’esperienza piacevolissima di essere una donna per altri tre anni. 
PAUL AUSTER — Una mia amica, che è anche un’ottima attrice, mi ha detto che per poter rappresentare un personaggio la prima cosa che deve fare è capire come cammina. Noi siamo un po’ come gli attori. Abbiamo entrambi scritto di donne dal punto di vista delle donne. È incredibile il salto di fantasia che questo richiede. Eppure io non l’ho sentita come una cosa così difficile. Tutti, uomini e donne, possono essere conosciuti e lo scrittore può diventare chiunque. È la forza più potente quando si scrive. A volte i personaggi ti dicono quello che devono fare, non sei tu a manipolarli, non sei il burattinaio. Io cerco di ascoltarli, non vado mai contro la loro volontà. Quasi trent’anni fa ho avuto una conversazione fantastica. Avevo terminato La musica del caso, un produttore di Hollywood voleva farne un film e mi ha telefonato dicendo: mi è piaciuta moltissimo la tua storia. Hai questi due personaggi, Flower e Stone, sono interessantissimi, però a un certo punto scompaiono e non ritornano più. Io penso che nel film dovrebbero ritornare. Ho risposto: ma l’intero punto della storia è che non tornano. E lui: ma tu sei l’autore, puoi fargli fare quello che vuoi. Ho dovuto spiegarglielo: sono loro in controllo, sono loro ad avere l’ultima parola, non io, funziona proprio al contrario. Ovviamente il film non si è fatto. 
DAVID GROSSMAN — È la stessa esperienza che vivo io. Se all’inizio del processo di scrittura sono consapevole che ci saranno dei lettori e penso che mio padre che ha 95 anni e ancora legge le mie bozze potrebbe reagire in un certo modo, poi mi chiedo cosa diranno mia moglie, i miei figli, il primo ministro o gli amici, dopo due o tre mesi l’unico dovere che sento è verso la profondità della storia. Non posso imporle sviluppi che non siano in linea, è quasi una creatura vivente, può rifiutare delle cose. 

Mettersi nei panni di un altro, soprattutto per Grossman, è anche un’istanza politica. «Con gli occhi del nemico», titolo di un suo saggio, significa proprio questo. È necessario un tipo di tolleranza e di accettazione che consente allo scrittore – e di conseguenza anche al lettore – di sperimentare il mondo tramite la coscienza, l’anima e il corpo di un’altra persona, sconosciuta e talvolta avversa. 
PAUL AUSTER — In realtà io penso che tutta la letteratura sia politica, in modo più o meno franco. Ne La musica del caso non si parla mai di politica in modo esplicito, però c’è una situazione di potere terribile e in questo senso è il libro più politico che abbia scritto. Essenziale per chi scrive e per chi legge è sapere che non ci sono regole. Il fatto che una persona abbia una coscienza sociale nobile, sofisticata, alta, che pensi nel modo che riteniamo giusto, non implica che sia un ottimo scrittore. D’altro canto, un autore che scrive di donne ricchissime a una festa sulla Fifth Avenue, che non parlano di politica, della società, ma sono coinvolte nella loro vita, se è bravo, se è in grado di rappresentarle, può comunque produrre un risultato bellissimo e molto potente. Non è più importante nemmeno quale sia l’argomento. La forza della narrativa è proprio questa: creare una sensazione reale, vissuta. Quello che è scritto male è male, ma quando è scritto bene, lo è indipendentemente dall’atto politico. 
DAVID GROSSMAN — Io rispondo a questa domanda dal mio punto di vista: quello di uno scrittore che ha sempre vissuto in uno stato di guerra, che non ha mai conosciuto un solo giorno di vera pace. Me ne rendo conto quando incontro le persone che vivono fuori Israele: capisco che loro sanno molto di più della pace rispetto a me. La cosa tragica è che ti fossilizzi nella tua storia e questa narrativa diventa sempre più chiusa e tu pensi di poterne trarre vantaggio perché in qualche modo rafforza la tua identità, la tua capacità di sopravvivere. Ma non ti permette di capire che puoi diventare prigioniero di questa storia ufficiale. Nel nostro conflitto si parla tanto di come lo storytelling israeliano e quello palestinese si scontrino, perché è come se fossero congelati in due versioni. La cosa che cerco di fare, quando scrivo di storie politiche, ma anche di famiglia, amici, amanti, è massaggiare questa narrativa congelata. Cerco di rilassare il muscolo rigido della storia che ci raccontiamo fino a quando, se sono fortunato, c’è un movimento e quindi un cambiamento del mio punto di vista. In questi anni, come israeliano, ho scritto spesso mettendomi dal punto di vista dei palestinesi. Lo faccio perché è l’unico modo che ci consentirà di capire davvero questa situazione e pensare a come raggiungere la pace. Trentatrè anni fa, quando ho scritto Il vento giallo, una raccolta di reportage sulla vita nei territori occupati, ho trascorso una decina di ore in un campo profughi palestinese ascoltando le storie dei rifugiati. Ho sentito proprio un’ondata di emozione perché loro volevano essere ascoltati da un israeliano. Mi raccontavano le loro storie personali, anche intime, in un modo disperato. Tutti cerchiamo legittimità e vogliamo che sia il nostro nemico a darcela. A un certo punto sono tornato a Gerusalemme per comprare un nuovo taccuino, sono andato in centro, era buio, la gente intorno a me camminava, faceva le sue cose, tranquilla. E io mi sentivo bruciare, avrei voluto scuoterli, dire a chiunque incontrassi: ma non sai che cosa sta succedendo? Non sai che accumulo di rabbia, di frustrazione, di odio c’è? Non capisci che tutto questo ci esploderà in faccia? È stato il momento in cui ho capito che è importante leggere il testo del conflitto anche dal punto di vista dei nostri nemici perché non sia soltanto la proiezione dei nostri pensieri, dei nostri incubi, ma la fusione delle due storie. 
PAUL AUSTER —  Però se tu non riesci a raccontare bene la storia non serve a nulla. Devi essere un bravo scrittore perché queste persone risultino vive. L’impulso di farlo è una cosa, ma la capacità è un’altra. Ed è qui che entra in gioco la fatica degli scrittori. Ecco perché stiamo seduti anche per mezza giornata a rivedere una frase. Se non suonerà nel modo giusto l’intero testo non suonerà nel modo giusto. È lì che devi sudare. Devi farlo in modo che sembri semplice, vuoi che il lettore pensi: caspita Auster, o Grossman, è andato via liscio.
Nel libro intervista «Una vita in parole. Conversazione con I. B. Siegumfeldt» Paul Auster fa una distinzione molto netta: i romanzi sono opere di finzione, i testi autobiografici non sono opere di finzione. Sembra quasi che tenga in modo particolare a proteggere l’autenticità della sua vita, anche se i suoi scritti autobiografici scardinano la forma classica. Nello stesso tempo, in «Città di vetro», che è fiction, gioca con la scissione tra quello che chiama l’«io scrittore» e l’«io biografico» tanto che un personaggio si chiama Paul Auster. Grossman nella maggior parte dei suoi libri attinge in modo allusivo e indiretto alla propria vicenda personale, innescando un processo di reinvenzione dove la sua vita rimane ben riconoscibile. 
DAVID GROSSMAN — Paul, questo penso sia proprio il tuo campo. 
PAUL AUSTER — Quando scrivi l’unica cosa che hai a disposizione è la tua esperienza personale, comprendendo in questo ciò che leggi, che senti dire da altri, ciò che fa parte del tuo mondo, le persone che conosci. Tutto questo ci rende quello che siamo e lo possiamo utilizzare per creare i personaggi. Se io scrivo che martedì 12 gennaio ho mangiato un hamburger e lo inserisco nel romanzo diventa fiction. Non importa se si basa su qualcosa di reale. Naturalmente parlo sempre della mia vita personale. Però nella fiction questa scompare e non ha più importanza. I miei libri biografici non sono autobiografie, non è tanto la storia mia che mi interessa, ma usare le mie esperienze per pormi delle domande a proposito del mondo. Per esempio ho scritto un libro su mio padre.... 
«L’invenzione della solitudine»...
PAUL AUSTER — Sì. Riguarda questo: che cosa significa conoscere una persona inconoscibile. In Sbarcare il lunario ho parlato del non avere soldi perché all’inizio ero poverissimo. Non si tratta però di proclamare la mia povertà al mondo, quanto di riuscire a rappresentare che cosa succede se sei povero. Io sono io, ma sono anche tutti. Uso me stesso come esempio per gli altri, visto che sono la persona che conosco meglio. È il motivo per cui faccio questa distinzione, perché io sono sempre vero, non mi invento le cose, anche se sono spiacevoli e imbarazzanti sento di dover raccontare la mia verità come lo conosco, entro i miei limiti. Sono due tipi di scrittura, in tutti e due i casi ci sono le parole e la necessità di scrivere bene. Però io separo queste due modalità. 
DAVID GROSSMAN — E infatti hai scritto tanto su questo tema. Per quanto mi riguarda, nel momento in cui scrivo qualcosa, questo diventa parte della mia biografia, cioè comincio a pensare che quella cosa sia davvero successa.
PAUL AUSTER — Anch’io ho la sensazione che i personaggi dei miei romanzi siano reali. Molti li ho scritti trenta o quarant’anni fa e ciò nonostante nella mia mente sono ancora vivi, si muovono in qualche universo alternativo. Mi rendo conto che potrebbe risultare un approccio infantile ma non riesco a pensare che queste persone, che sono il prodotto dell’immaginazione, non esistano. 
DAVID GROSSMAN — A volte mi dico: ecco hai parlato come Yair (Che tu sia per me il coltello, ndr); hai agito come Momik (Vedi alla voce amore, ndr) o come Aaron (Il libro della grammatica interiore, ndr). Ogni tanto qualcuno mi dice: sembra proprio che tu abbia raccontato la mia storia, la mia vita. Mi rende felice, ma la cosa importante è che io parlo dell’esperienza di essere umani, di essere mortali, di sentirsi soli in questo mondo, di essere un padre, un figlio, un anziano. Perché queste sono cose che mi toccano profondamente. C’è anche un altro lato di questa domanda. Tutte le volte che ho scritto qualcosa la mia scrittura è diventata qualcosa che ha cambiato me stesso, la mia vita. Scrivere mi libera da questa sensazione di solitudine, di non essere capito, che non ci sia un posto per me nel mondo.

PAUL AUSTER — Con La vita gioca con me hai fatto una cosa nuova. Sono curioso di leggerlo in inglese, non vedo l’ora che esca la traduzione.
DAVID GROSSMAN — Ho scritto la storia che una donna mi ha dato. Eva Painc Nahir, che ha ispirato il personaggio di Vera, mi ha raccontato la sua vita, la sua storia d’amore. Io le ho detto: ascolta, posso raccontare la tua storia, ma non voglio documentarla, mi devi permettere anche di immaginarla. Soltanto quando sono riuscito a diventare lei ho potuto raccontarla. La gente ti regala la propria storia, ma se tu sei fedele all’atto della scrittura, devi chiarire che non sarai fedele a loro, cercherai di non creare troppo dolore, però forse lo dovrai fare. Con Eva sapevo di scrivere anche cose che non le erano successe, ma erano coerenti con lei. 
PAUL AUSTER — Negli ultimi due anni e mezzo mi sono dedicato a un libro su Stephen Crane, brillante scrittore americano, morto nel 1900 a 28 anni. Ho cercato di capirlo, era un giovanotto complesso. Più sono riuscito a conoscerlo, più l’ho sentito come un altro personaggio dei miei romanzi. È una sensazione estremamente affascinante, un’esperienza che non ho mai fatto in passato. Certo, non è la stessa cosa del tuo libro però gli assomiglia perché anch’io ho preso una persona reale e ho cercato di immaginarla. Anche se forse lui non riuscirebbe a riconoscersi leggendomi. Quello che racconto è comunque la verità ed è ciò che conta.
Nei libri di Paul Auster l’identità individuale appare come condizione fluida, legata anche alla precarietà dell’esistenza. In Grossman il fatto stesso di vivere in Israele fa apparire l’identità individuale, anche intesa come appartenenza a una collettività, come qualcosa di più solido. La letteratura serve a ricomporre o a scomporre l’identità? 
PAUL AUSTER — Tutti noi siamo estremamente complessi. La nostra personalità è uno spettro che va da un’estremità all’altra. Possiamo immaginare che ognuno viva al centro di questo spettro e gli estremi possono essere opposti: crudeltà/gentilezza, irrazionalità/grande lucidità. Soltanto alcune persone eccezionali, nel bene o nel male, stanno a un estremo o all’altro dello spettro: un terribile criminale che vive solo per rubare o per uccidere o il santo che dedica tutta la sua vita a occuparsi degli altri. Come scrittori, ma anche come esseri umani, dobbiamo cercare di capire la molteplicità e capire che nessuno ha una personalità coerente, ma ci sono ondate diverse di vita. 
L’identità si basa anche sulla memoria, personale e collettiva: un tema che per due scrittori ebrei, come voi, ha un peso anche politico e sociale. Abraham Yehoshua ha detto recentemente che troppa memoria fa male, che rischia di diventare un ostacolo all’andare avanti, ha invitato a non fossilizzarsi sul passato. Come può essere conservata la memoria della Shoah in futuro?
DAVID GROSSMAN — Noi apparteniamo all’unica religione che chiede ai suoi fedeli di ricordare. È proprio un ordine biblico: ricordate il passato, ricordate che cosa vi è stato fatto e ricordatelo ai vostri figli. Il luogo della memoria, la storia che noi ci raccontiamo, sono importantissimi perché siamo stati un popolo piccolissimo, fragile, sempre vicino allo sterminio. Abbiamo dovuto creare un’identità per noi stessi solida, dando una sequenza del corso del tempo. Ricordare la Shoah è importante perché ormai sono pochi i sopravvissuti, presto non ci sarà più nessuno. Ci sono due modi per ricordare: uno è il metodo scientifico, cioè le ricerche, gli studi sui numeri, sulla struttura, sulle situazioni dello sterminio. Ma questo non sarà sufficiente. Ci dovrà essere anche l’aspetto filosofico, a proposito della fonte del male, dell’antisemitismo. C’è la dimensione della tragedia personale, intima, la storia degli individui che sono rimasti intrappolati. Dovremo immaginare che cosa ha significato per una famiglia, per una madre, per un padre, per dei figli, doversi spogliare appena prima di essere uccisi. C’è una cosa che mi è stata raccontata e che non dimenticherò mai: due ragazzi di 10 anni stavano giocando a calcio nel giardino della scuola e a un certo punto qualcuno è arrivato e li ha portati via. Un’ora dopo, dal vagone dove erano stati caricati per essere mandati verso il campo di sterminio, hanno visto gli amici cristiani che continuavano a giocare nel cortile. Queste storie sono essenziali, devono essere raccontate e il modo migliore è l’arte, la musica, il cinema, la letteratura, che possono farci diventare quelle persone. 
PAUL AUSTER — Non sono d’accordo con il fatto che troppa memoria possa essere un ostacolo. Io ho una vita diversa rispetto a quella di David. Sono ebreo e ho naturalmente studiato la storia del popolo ebraico, ma sono anche americano. La nostra storia è molto breve rispetto a quella degli ebrei, ma se non si conosce a fondo si continueranno a fare gli stessi errori. Il fatto che l’America, la prima democrazia, il primo Paese inventato al mondo, si basi su due crimini – la schiavitù e lo sterminio dei nativi – ancora oggi sotterrati, fa sì che continuiamo a pagare conseguenze terribili. Penso che sia urgente e necessario, per tutti e ovunque, conoscere il passato perché altrimenti non è possibile vivere nel presente o immaginare il futuro. Allo stesso tempo non dovremmo creare risentimento, quello che per esempio è successo nella ex Jugoslavia, dove una guerra di secoli fa ha continuato a essere coltivata da uomini del XX secolo. Non si può rimanere in guerra per un millennio. 
DAVID GROSSMAN — Credo che Yehoshua intendesse non essere intrappolati dalle nostre memorie, non consentire al ricordo di bloccarci, di non essere liberi, di non poter credere nella bellezza della vita, anche se sappiamo che cosa può fare la crudeltà dell’uomo. 

PAUL AUSTER — Ciò che io trovo bellissimo è che dopo i campi di sterminio, dopo l’uccisione di così tante persone, tra i sopravvissuti ci sia stata una corsa compulsiva a fare l’amore, a generare bambini. La gente che aveva affrontato la morte ha cominciato immediatamente ad abbracciare la vita. Volevano un futuro e il futuro era la nuova generazione. È lo spirito umano che vuole continuare a vivere vivere vivere. 
DAVID GROSSMAN — Sì, è vero. E c’è anche la cosa incredibile di aver fondato uno Stato tre anni dopo la fine della guerra, dopo la Shoah. Queste persone sono state in grado di creare una nazione che è riuscita a raggiungere risultati incredibili sul piano internazionale: nel campo dell’agricoltura, della cultura, dell’high tech. Anche nel campo militare, con l’esercito che ci può proteggere in questo Medio Oriente ostile perché, bisogna ricordarlo, non ha soltanto il compito di occupare. E questa è una storia più grande della vita. A interferire con questa sensazione di grandiosità c’è soltanto la nostra incapacità di raggiungere la pace. Pensare che dopo 73 anni e dopo tutto quello che abbiamo fatto non ci siamo ancora riusciti è incredibile. In questo Paese dove siamo così innovativi, così creativi, dove abbiamo osato ovunque, la cosa più importante per il futuro è l’unica cosa che ci vede paralizzati. La prima definizione di un ebreo è stata di qualcuno che non si è mai sentito a casa nel mondo. Qui abbiamo creato un luogo che dovrebbe essere la nostra casa e invece è ancora la nostra fortezza. Finché non si concluderà questo processo non sarà possibile per noi avere una casa e nemmeno per i palestinesi. Quindi dipendiamo gli uni dagli altri. 
PAUL AUSTER — Posso dire che non ci sono molte persone capaci di raccontare così bene e in poche parole l’intera storia di Israele?
Certo, ma il tempo è finito ed è l’ora dei saluti. Forse. Prima di chiudere si sentono le parole di David Grossman: «Ciao Paul, ti richiamo tra due minuti».