La Stampa, 2 febbraio 2020
Intervista allo scultore Antony Gormley
Lo scultore Antony Gormley è noto soprattutto per le grandi installazioni in spazi pubblici. Una mostra dedicata alle sue opere si è tenuta recentemente alla Royal Academy of Arts di Londra. La prossima sarà alla Galerie Thaddaeus Ropac, Parigi Marais. Viene da una famiglia irlandese e tedesca e ha studiato alla Cambridge e alle scuole d’arte di Londra. Per diversi anni è stato in India «dove mio padre ha fondato delle case farmaceutiche. Dopo Cambridge ho studiato meditazione buddista in India e in Sri Lanka. Poi, nel 1974, mi sono chiesto: sarà questa la mia vita, o dovrei seguire la mia vocazione come artista? Ho deciso per quest’ultima».
Perché è diventato scultore?
«La scultura è il modo più immediato di cambiare il mondo. La sfida più grande era quella di creare qualcosa che prima non esisteva e metterlo, non importava dove: nel giardino, sulla spiaggia, sulla strada. E poi vedere la reazione della gente».
Come ha iniziato?
«Al college quando studiavo arte ero entusiasta di avere libero accesso alla pietra, al legno, alla resina: realizzavo pezzi sperimentali con terra e argilla, immergevo vecchie bende ospedaliere nel gesso e le posizionavo sui corpi dei miei amici. In India la gente dorme per le strade coperta dal suo dhoti. Questo è rimasto in me come un’immagine della relazione tra l’individuo e la massa e la sua fragilità».
Quando ha deciso di ridurre la distanza artista/modello usando il suo corpo?
«La decisione è stata graduale. Guardavo il pane che viene trasformato in energia dall’uomo. Guardavo i vestiti, e le prime opere erano i miei vestiti tagliati a metà e appuntati al muro come la pelle di un animale, e il senso è: questo è il luogo della vita umana. Il passo successivo è stato pensare: che cos’è la vita umana? Il mio lavoro Mould è del 1981-2. Mi ero appena sposato con Vicken, lei mi ha modellato nella posizione fetale, con la bocca aperta per respirare».
E i suoi lavori come l’Angelo del Nord, o Event Horizon, su una spiaggia, una scogliera o un tetto?
«Pongono la stessa domanda in diversi modi. Che cos’è un essere umano e dove si inserisce nello schema delle cose? Qual è la relazione tra mente e materia? Pensiamo al corpo come un luogo di divenire, di energia, di trasformazione. Pensiamo al potenziale piuttosto che al ricordo».
Il corpo è alla base del suo lavoro?
«Nell’era digitale abbiamo reso il corpo ridondante per la maggior parte del tempo. Il corpo è stato fatto per muoversi e passiamo la vita seduti, guardando uno schermo. Tutte le nostre impressioni sul mondo arrivano attraverso il corpo e attraverso di esso vengono comunicate. La scultura incoraggia l’esperienza fisica diretta. È un modo per contrastare questa scomparsa nel virtuale».
È soddisfatto della sua mostra a Londra?
«Si, molto. In quelle 13 sale illuminate naturalmente c’era un’atmosfera di contemplazione attiva. C’era un senso di riflessione e proiezione nel modo in cui le persone si muovevano, interagendo con il lavoro. Il vero soggetto era sempre lo spettatore».
Che cosa pensa delle mostre?
«Possono essere produttive. Quella della Royal Academy ha messo a confronto le opere realizzate in oltre 40 anni e ha permesso loro di dialogare come mai era avvenuto. Ma le mostre sono molto impegnative e possono anche distrarre dall’evoluzione interiore».
Che cosa esporrà a Parigi dal 12 marzo alla galleria di Thaddaeus Ropac?
«La mostra nel suo insieme chiede: fino a che punto, dopo aver creato un mondo, il mondo ci plasma? L’opera principale è una singola linea lunga circa 200 metri, realizzata con un tubo di alluminio cavo. Imita il modo in cui l’architettura divide e struttura lo spazio, ma senza muri».
Lei ha vinto il Turner Prize nel 1994, è un Royal Academician. Ed è stato nominato cavaliere nel 1997...
«Ammetto con riluttanza di essere stato inserito nell’establishment».
Per chi lavora?
«Il lavoro è il maestro. L’arte è un dono, una vocazione. Non ha senso se non è condivisa. Nessuno ha chiesto la privatizzazione dell’arte».
Allo stesso tempo l’arte oggi è un investimento.
«La mercificazione dell’arte è ridicola, ma ne sto anche sfruttando i vantaggi. La gente compra i miei lavori e questo mi permette di fare cose straordinarie come la scultura in riva al mare, o l’esperimento a New York, dove faremo il primo Clearing senza un edificio, a un’altezza media di 8 metri, sul Molo 3 di Brooklyn Bridge Park».
Lo sta facendo con i BTS, i giovani musicisti K-pop?
«Sì. Un quarto della popolazione mondiale è nella fascia di età dai 17 ai 25 anni. Non c’è mai stata una percentuale così alta di giovanissimi, e l’idea del progetto Connect è di aiutarli a rivalutare il loro presente, le loro attitudini e potenzialità. Aspira a creare ponti tra generazioni, tra diversi contesti culturali. ».
Rimpiange di aver scelto questa carriera?
«Certamente no! Sento di avere ancora molto da fare. Ci sono così tanti punti di non ritorno: il clima, la divisione tra ricchi e poveri, le risorse nelle mani di pochi. La domanda è: qual è la natura umana in una cyber-società, in cui abbiamo una grande connettività digitale ma siamo tutti più soli di quanto siamo mai stati?».
(traduzione di Carla Reschia)