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 2020  febbraio 02 Domenica calendario

La nuova traduzione di “Via col vento”

Entra Scarlett O’Hara. Il film di Victor Fleming (o chi per lui) le ha sovrapposto gli occhi verdi e il capriccioso temperamento di Vivien Leigh, attrice di teatro britannica scritturata dopo una ricerca che procurò tanta pubblicità gratuita (e subito criticata, «non c’era una ragazza americana giusta per la parte?»). Leggere Via col vento scacciando quell’immagine è impresa ardua, come leggere Il Signore degli Anelli senza pensare agli occhi velati di Gollum nei film di Peter Jackson. Il romanzo non aveva bisogno del film per imporsi. Margaret Mitchell sapeva costruire i personaggi, forte della sua immaginazione e di una madre suffragetta di origine irlandese come nel romanzo è Gerald O’Hara, padre di Scarlett e immigrato di prima generazione. Da qui vengono la cocciutaggine, lo spirito ribelle, l’amore per la terra. L’altra meta di Scarlett, ovvero la coquettishness – così una biografa – e la tendenza al flirt (più bello l’originale, unscrupulous flirtation ) appartengono alla giornalista che tra le scrivanie dell’ Atlanta Journal diede scandalo perché non somigliava a una bella statuina.
Scarlett ha sedici anni quando si mette in ghingheri per il barbecue dove sarà annunciato il fidanzamento di Ashley e Melanie. Ne avrà ventotto alla fine del romanzo. Vivien Leigh ne aveva ventisei quando girò il film, Leslie Howard che fa Ashley – controvoglia, si sentiva troppo vecchio, e per snobismo da teatrante aveva letto soltanto la sceneggiatura di Sidney Howard (anche qui, un solo nome per un lavoro di scrittura stratificato) – ne aveva quarantasei. Clark Gable ne aveva trentotto. Gli spettatori allora non ci badavano. Chi legge il romanzo dovrebbe ogni tanto ricordare l’età vera della viziata ragazza che sbuffa: «Sono stufa di sentir parlare di guerra».
Margaret Mitchell è troppo abile per appiattire la sua eroina sui capricci: serve altro per reggere la lunga distanza. Come insegnava ?echov, bisogna sistemare le pedine per il dramma. Nel capitolo 1 (di 63), la passione di Scarlett per Ashley, primo motore del romanzo. Colto e malinconico fino alla caricatura, sta per sposare Melanie, vista quasi sempre con gli occhi della rivale: «Insulsa, patetica, sciocca, mite, scarsa di brio e conversazione». Nel capitolo 6, dopo un po’ di genealogia familiare conosciamo Rhett Butler. Arriva da Charleston, «un nome già sentito, che le evocava qualcosa di piacevolmente scandaloso»: espulso da West Point, le malelingue sussurrano di una ragazza compromessa e mai sposata.
Le circostanze dell’incontro con Rhett sono da grande scrittrice, rivoluzionaria e audace (sangue di suffragetta non mente, era il 1936). Scarlett ha appena mollato un ceffone a Ashley, colpevole di matrimonio con un’altra: «Sul volto pallido e tirato fiammeggiava il segno delle cinque dita» (lui incassa). Furiosa, afferra una coppa di ceramica con dipinti due cherubini – sono i dettagli che fanno gli scrittori, una scena di caccia sarebbe stata più banale – e la scaglia contro il caminetto. Non sospetta la presenza di Rhett Butler, appisolato sul divano. Viene svegliato dal litigio – «Ti odierò finché vivo, sciagurato, miserabile» – e dal fracasso del vaso rotto. «Voi non siete un gentiluomo» e «voi non siete una gentildonna» è il primo battibecco di tanti. «Vi amo, Scarlett, perché siamo simili, egoisti e senza scrupoli» sarà la dichiarazione d’amore, quando tardivamente Rhett si arruolerà.
Le femministe non si son fatte sfuggire un personaggio tanto popolare, quasi sempre tenendo sotto tiro la Scarlett del film, non del romanzo: a lei preferiscono la materna e generosa Melanie (mai che facciano il tifo per la ragazza che affronta da sola il mondo ostile). Non si sono fatti sfuggire Via col vento neppure i cultori della correttezza politica: sono tutti schiavisti e razzisti, hanno inventato il Ku Klux Klan e neppure si sentono in colpa. Per fortuna i romanzi funzionano secondo altre regole, sennò toccherebbe sacrificare tanti libri ben scritti, tenendoci una montagna di titoli edificanti.
Margaret Mitchell sa che i personaggi senza spessore o complicanze son poco interessanti. Non perde occasione, con l’aiuto di Rhett Butler, per sottolineare l’ignoranza di Scarlett (e la distanza dal colto Ashley, tanto raffinato che non le dice mai chiaramente «non ti amo»). E il suo cattivo gusto, culminato nella richiesta di costruire ad Atlanta, Georgia, non una villa in stile creolo o coloniale, ma una casa vista su un giornale, «ispirata a uno chalet svizzero». Rhett perfidamente insiste: «Aveva la veranda di legno lavorato a traforo, immagino? (…) E un fregio di legno lungo tutta la tettoia?». Sempre in tema di gusti, precisa: «E se ti piacciono i gioielli, li avrai, ma li sceglierò io perché hai gusti abominevoli, tesoro». Scarlett non riesce a essere signora neppure davanti alla governante Mammy: «Siete una mula bardata da cavallo».
Il film ebbe una lavorazione travagliata, il regista accreditato Victor Fleming non gradì la dichiarazione, più che veritiera, di David O. Selznick: «L’opera di cinque registi sotto la mia direzione» e disertò la prima di Atlanta. È l’occasione per sfatare la leggenda secondo cui i produttori esistono con il solo scopo di ostacolare i registi. Il primo ad andare sul set fu George Cukor, a lui era toccato il lungo lavoro di preparazione. Fu protestato da Clark Gable, che lo considerava «un regista di donne». Siccome Selznick aveva aspettato due anni pur di avere l’attore, lo accontentò. Liberandosi di uno che aveva la brutta abitudine di cambiare le battute (Vivien Leigh e Olivia de Havilland continuarono a consultare Cukor in segreto, facendosi guidare da lui). Arrivò Victor Fleming, che nel frattempo stava montando Il mago di Oz: per questo e per i continui interventi di Selznick, che lo tormentava con centinaia di memo su ogni dettaglio ebbe un esaurimento nervoso.
Via col vento romanzo è un magnifico one-woman-show (vale per la scrittrice e per il personaggio). Via col vento film è un’opera collettiva, del genere che potrebbe riuscire male, date le premesse – Vivien Leigh detestava baciare Clark Gable, per dirne una – e invece tutto miracolosamente va a posto. Alla proiezione di gala – i festeggiamenti portarono ad Atlanta un milione di persone, più o meno come le Olimpiadi sessant’anni dopo – non c’era Hattie Mc-Daniel, l’attrice che fa Mammy e nel film riceve in dono una sottoveste frusciante di taffetà rosso. Erano in vigore le leggi segregazioniste di Jim Crow, non sarebbe stata ammessa al Loew’s Grand Theater. Fu la prima attrice nera a vincere un Oscar, ma anche a Los Angeles durante la cerimonia le diedero un posto lontano dagli altri attori.