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 2020  febbraio 02 Domenica calendario

Viaggio nella mente dei giocatori d’azzardo

Chiudete fuori dalla porta qualunque emozione o pensiero di natura etica, e valutate la situazione: dovrete concludere, malgrado voi stessi, che le scommesse e gli altri giochi d’azzardo gestiti da concessionari per conto dello Stato sono una delle principali cause della crescita economica in Italia. Lo sono da tempo. Senza di esse il prodotto interno lordo (Pil) in Italia non sarebbe dov’è, o almeno negli anni avrebbe preso una piega diversa. 
Una decina di anni fa gli italiani spendevano in scommesse una ventina di miliardi di euro. Il 2019 si è chiuso con un nuovo record che segna una progressione geometrica: 109,4 miliardi giocati, secondo le prime stime dell’Agenzia delle Dogane che gestisce le concessioni. È pari a circa il sei per cento del Pil, una novantina di miliardi di euro più di un decennio fa. È possibile, magari probabile, che senza le sirene dell’azzardo a ogni angolo delle nostre città le stesse somme sarebbero state spese in altri modi. Forse avremmo avuto lo stesso fatturato, solo impiegato più produttivamente, dunque l’economia sarebbe cresciuta di più. Quando si mettono insieme i fatti degli ultimi dieci anni, tuttavia, prende forma in concreto un’altra storia: l’aumento del fatturato lordo del solo settore delle scommesse legali in Italia supera (di poco) l’aumento del fatturato dell’intera economia nazionale. Siamo cresciuti tanto quanto è cresciuto il gioco d’azzardo, non un euro di più. 
Ovviamente non tutti gli abitanti della penisola tentano la fortuna con lotterie, Gratta & Vinci, portali in rete e slot machine. Solo un terzo di loro – 18,5 milioni di persone – lo aveva fatto almeno una volta nell’ultimo anno, quando l’Istituto superiore di sanità (Iss) ha condotto un ampio studio a campione fra agosto 2017 e gennaio 2018. Se questi numeri sono confermati nel 2019 allora significa che ogni giocatore in Italia, dai saltuari agli incalliti, ha scommesso in media per poco meno di seimila euro nei dodici mesi. 
Naturalmente ci sono anche le vincite, le quali fanno sì che non tutto il denaro scommesso vada perduto per i giocatori. Quelle valevano ben 90 miliardi di euro l’anno scorso e ciò in parte spiega perché i volumi delle scommesse siano astronomici: quando ottengono guadagni istantanei, gli italiani tendono a rigiocarseli subito. Vincono e rigiocano, perdono e rigiocano. Il 62% di quei 18 milioni dichiara di farlo in totale solitudine. Si finisce per perdere il senso del tempo e del denaro speso, come emerge dalle interviste con loro degli psicologi dell’Iss. Questo enorme ingranaggio circolare del denaro lascia allo Stato un margine lordo di 19,4 miliardi (stime dell’Agenzia delle Dogane sul 2019) dei quali circa otto servono per remunerare le concessionarie. Il giro d’affari delle scommesse frutta dunque all’erario pubblico circa dodici miliardi di euro netti, inclusi i circa 700 milioni da tasse sulle vincite del Gratta & Vinci, del Superenalotto o delle macchine Vlt. In altri termini, senza gioco d’azzardo legale il deficit e il debito pubblico dell’Italia rischierebbero seriamente di finire fuori controllo se il governo non reperisse dodici miliardi con altre tasse o nuovi risparmi. 
C’è però un altro modo di vedere lo stesso fenomeno, da un angolo diverso: quest’industria è una sorta di colossale centrifuga che produce e amplifica le diseguaglianze sociali. È diseguale, ma concentrata fra relativamente pochi, la distribuzione delle vincite perché per definizione coloro che ottengono dei soldi dal gioco d’azzardo sono meno di coloro che ci provano. Ed è diseguale la distribuzione dei giocatori nella società, molto più diffusi fra i ceti, i territori e le categorie più vulnerabili d’Italia. In altri termini il gioco d’azzardo oggi è una vasta tassa sui deboli – confermata da tutti i governi degli ultimi dieci anni, dunque da tutti i partiti oggi in parlamento – mentre i ceti patrimonializzati godono di prelievi miti come la cedolare secca al 10% sui ricavi da affitto o l’aliquota «piatta» al 12,5% o al 26% sui redditi da capitale.
Per capire dunque chi oggi è dentro la centrifuga dell’azzardo, viene in aiuto lo studio dell’Iss. L’identikit del giocatore-tipo, a prima vista, è chiaro: maschio di mezza età, spesso ha iniziato a giocare prima dei 25 anni, abita in Italia centrale (dove ha scommesso nell’ultimo anno il 42% della popolazione), è divorziato o separato (lo sono il 45% dei giocatori), è occupato (il 42%) ma ha solo la licenza media (il 40%), fuma e beve superalcolici fra una e tre volte la settimana. Se rispondete a questa descrizione e non giocate d’azzardo, siete in una netta minoranza nel vostro genere. 
I problemi più gravi però sono soprattutto altrove, se si guarda ai tre milioni di italiani definiti «problematici» o «a rischio moderato», perché danneggiano o mettono in pericolo se stessi o la propria famiglia a causa della dipendenza dall’azzardo. Poco meno del 6% della popolazione di Sicilia e Sardegna risponde a questa definizione e quasi il 5% nel resto del Mezzogiorno: un terzo di loro, dichiara di aver iniziato a giocare «in base a una pubblicità vista o sentita». Un terzo della popolazione totale (e oltre il 40% fra i maschi) sono anche i teenager minorenni che ammettono di aver giocato d’azzardo nell’ultimo anno. Più di uno su quattro fra loro dice di averlo fatto per la prima volta prima dei 12 anni, sono più concentrati al Sud, studiano di solito negli istituti tecnici (non nei licei della borghesia) e per lo più dichiarano di avere un rendimento scolastico «insufficiente». Sono gli italiani di domani, quelli chiamati a sostenere il debito pubblico con le loro perdite alle slot machine.