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 2020  febbraio 01 Sabato calendario

La Brexit vista dal porto di Dover

Al porto di Dover è una grigia e nebbiosa mattina di gennaio. Una tipica e anonima giornata di inverno sul canale della Manica se non fosse che è anche il giorno in cui il Regno Unito scrive la storia: dopo 47 anni il paese lascia l’Unione Europea, dove era entrata, ironia della sorte, sempre di gennaio, il capodanno del 1973. E Dover è la città simbolo della Brexit, la porta d’ingresso alla Gran Bretagna. Il mesto centro marittimo è il punto più vicino all’Europa di tutto il paese: qui la Manica è larga appena 34 km; nei giorni di cielo sereno, dalle famose scogliere si intravede la costa della Francia.
A un certo punto una sottilissima e insistente pioggia si abbatte sul porto: dal lungomare nemmeno le navi si vedono più. Eppure ne arrivano e partono in continuazione. Dover è un avamposto commerciale da millenni: il castello costruito dalle tribù dei Sassoni in cima alla collina nel XII secolo sorge accanto a un antico faro romano dell’epoca dell’imperatore Claudio: duemila anni dopo, ogni giorno più di 600 traghetti attraccano alle banchine e scaricano sul suolo inglese 10mila camion e il 99% sono tutti stranieri.
Un gigantesca movimentazione di merci che genera i 119 miliardi di sterline l’anno. Ma di questa faraonica piramide di denaro nemmeno una monetina da 50 Pence, tantomeno quella coniata apposta per celebrare la Brexit, finisce nelle tasche dei cittadini di Dover. Il Regno Unito è il 17% di tutte le merci che entrano nel Regno da Dover ma tutto questo movimento genera appena 58 milioni per il porto: un lillipuziano 0,05% dell’immensa ricchezza che viene scaricata sulle banchine. I camion scendono dai traghetti e imboccano l’autostrada: gli squisiti prodotti europei che trasportano vanno a soddisfare la vita dei cosmopoliti e ricchi londinesi, che sono quasi tutti expat. 
Nessuno si ferma a Dover: «Questa è una one horse town, come quelle del Far West, dove si cambiava solo il cavallo per proseguire più avanti», commenta Evelyn, signora inglese dai modi garbati che passeggia lungo York High Street. A loro non rimane che il traffico, lo smog e le strade intasate di Tir, emblema della globalizzazione e di quel mercato unico simbolo dell’odiata Unione Europa. Eppure da Bruxelles sono piovuti milioni di euro per finanziare la costruzione di due nuove banchine d’attracco al porto. Soldi sul territorio, posti di lavoro e riqualificazione. È servito a poco, però: a Dover la maggioranza ha votato per la Brexit.
Dentro al The Allotment, tavola calda nella zona pedonale costeggiata da brutti casermoni di cemento Anni ’60, una coppia di anziani racconta di essere triste. Loro si professano Remain e convinti europeisti: «L’Unione Europea non è perfetta, ma in un mondo dove ormai i problemi sono globali, non ha senso stare da soli», commentano. Sanno di essere un’eccezione. È vero che la città i soldi li vede solo passare, ma il porto significa anche occupazione. I container sono il più grosso datore di lavoro, non solo per Dover ma per tutta la regione del Kent. 
Con la Brexit, invece, la città rischia di auto-condannarsi al declino definitivo: se Boris Johnson non riuscirà a trovare un accordo commerciale con la Ue, da one horse town Dover diventerà una ghost town, una città fantasma. In caso di dazi e dogane, infatti, ci saranno lunghe code e forti rallentamenti per i camion in arrivo. A quel punto, per non perdere affari, il vino italiano, i formaggi francesi e il prosciutto spagnolo arriveranno via aereo. Dover ha scelto, democraticamente, la Brexit, ma se la potrà permettere? Nei giorni scorsi ai portuali è arrivata una lettera: sono in arrivo esuberi tra i dipendenti. Non era mai successo in duemila anni di storia.