Il Sole 24 Ore, 1 febbraio 2020
Popolare di Bari, i Jacobini agli arresti
L’inchiesta sulla Popolare di Bari è a un punto di svolta, con i tre arresti e una misura interdittiva decisi ieri dal gip di Bari, su richiesta del procuratore aggiunto Roberto Rossi ed eseguite dalla Guardia di Finanza. Finiscono in custodia cautelare ai domiciliari l’ex presidente Marco Jacobini, il figlio Gianluca Jacobini, ex condirettore della banca, ed Elia Circelli, responsabile della Sezione Bilancio. Per l’ex ad Vincenzo De Bustis il giudice ha deciso l’interdizione a esercitare per 12 mesi ruoli manageriali. L’ipotesi è che l’ex governance sia ancora attiva e, dunque, pericolosa per il futuro dell’istituto.
Nel registro degli indagati ci sono anche l’ex ad Giorgio Papa, Luigi Jacobini, vice direttore generale e responsabile direzione operation, gli ex presidenti del Collegio sindacale Roberto Pirola e Alberto Longo e l’ex responsabile dell’internal audit Giuseppe Marella. Per tutti i reati contestati sono, a vario titolo, false comunicazioni sociali, falso in bilancio, falso in prospetto, ostacolo alla vigilanza e maltrattamenti ed estorsioni a danno dell’ex chief risk officier della banca, Luca Sabetta, che per primo aveva sollevato il caso delle irregolarità dell’ex amministrazione.
Stando agli accertamenti, Marco Jacobini governava la Banca Popolare di Bari «con lo sguardo». Un «potere assoluto» esercitato assieme ai figli Gianluca e Luigi, per celare il dissesto finanziario dell’istituto di credito attraverso la manipolazione dei bilanci dal 2015 al 2018. Un «sistema» che aveva lo scopo di «ingannare» il mercato. Secondo gli investigatori «emerge con chiarezza l’atteggiamento psicologico di Marco Jacobini il quale, con la consapevolezza dei figli Luigi e Gianluca, agiva con l’intento di assicurarsi la permanenza in ruoli apicali della banca, garantendo a sé stesso ed ai propri familiari la corresponsione di remunerazioni ingenti e completamente fuori mercato». Al punto che dal 2011 al 2018 i componenti della famiglia Jacobini hanno percepito «retribuzioni complessive pari a oltre 10 milioni di euro (ripartite in vari anni), tutte gravanti sui bilanci societari e senza che si registrasse un ridimensionamento di tali retribuzioni a seguito dei rilievi sul punto mossi dagli organi di vigilanza». E che i numeri fossero falsati emerge in modo plastico dagli atti sulle fusioni, tra le altre, con Tercas, Caripe, Banca Mediterranea, Popolare di Calabria e Popolare della Penisola Sorrentina. In particolare, era stata omessa la svalutazione degli avviamenti per 397 milioni di euro, postando un utile falso di 42 milioni relativo ad un contenzioso con l’Ente ecclesiastico ospedale Miulli, indicando una apparente liquidità di 500 milioni di euro derivante da una operazione di cartolarizzazione e, infine, contabilizzando imposte anticipate sulla perdita fiscale per 141 milioni di euro. A questi si aggiungano i «profitti illeciti» per 5,6 milioni di euro che la famiglia Jacobini si sarebbe intascata poco prima del commissariamento di dicembre scorso.
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Gli arresti nei confronti degli ex vertici della Popolare di Bari mettono in luce la capacità della famiglia Jacobini di influenzare le scelte della banca e di condizionare le indagini, ancora oggi. Una delle prove sarebbe, ad esempio, il tentativo di Gianluca Jacobini di incontrate Benedetto Maggi, dipendente di BpB, «dopo le sue dichiarazioni alla Banca d’Italia», per conoscere gli esiti di quella audizione.
A confermare il rischio che anche nell’attualità Jacobini possa «condizionare» e «influenzare» l’istituto è lo stesso Maggi, vice responsabile della Direzione crediti. Nel suo verbale del 17 dicembre scorso ha parlato «dell’attuale potere di fatto della famiglia Jacobini». Gli stessi inquirenti scrivono negli atti che «la struttura della banca è ancora sottoposta al controllo di fatto della famiglia Jacobini». Non solo: aggiungono che si tratta di un «potere illecito che impedisce il risanamento della banca con i devestanti effetti sull’economia meridionale».
Spunta l’autoriciclaggio
Di certo, stando agli atti, l’ex patron avrebbe una presunta «elevatissima propensione a delinquere». Al punto che avrebbe tentato di mettere al riparo dalle indagini i suoi capitali. L’ipotesi di autoriciclaggio emerge da una serie di operazioni bancarie avvenute pochi giorni prima il commissariamento. «In particolare, si legge, per Marco Jacobini emergono profili di responsabilità in ordine a condotte di autoriciclaggio, non essendosi lo stesso limitato a trasferire il denaro su conti correnti accesi presso altre banche intestati a sé medesimo e o al coniuge, ma avendo impiegato in attività economiche, finanzierie e imprenditoriali il denaro proveniente dai delitti per i quali risulta indagato».
Sul ruolo Bankitalia
Dalle carte dell’inchiesta della procura di Bari emerge anche il ruolo della Vigilanza nelle varie fasi del dissesto finanziario della Popolare di Bari. Ruolo che probabilmente andrà approfondito ulteriormente, considerato che Bankitalia è da una parte l’autrice di due ispezioni che mettono in luce il dissesto, i finanziamenti baciati, i possibili raggiri nei confronti della clientela, i prestiti a imprenditori a rischio insolvenza; dall’altra però agli occhi degli inquirenti non sempre sembra in grado di agire per trovare una soluzione. Perché un dato sembra emergere in modo chiaro dalle carte degli investigatori: Bankitalia pur chiedendo un cambio di passo nella governance, con la nomina di nuovi vertici in sostituzione di Marco Jacobini, mostra una presunta «accondiscendenza» alle reticenze dell’ex patron dell’istituto di lasciare l’incarico.
Un particolare raccontato a verbale da un esponente di spicco della “Bari”, l’ex ad Giorgio Papa, indagato, ritenuto credibile dai pm. Racconta della «estrema accondiscendenza dei vertici della Banca d’Italia, che pur avendo rilevato la grave e ristagnante situazione conseguente al conflitto di interessi» degli Jacobini «non ha mai esercitato i poteri di “removing” attribuiti dalla Legge allo stesso supremo organo di vigilanza».
Un aspetto che sembrerebbe trovare conferma nelle intercettazioni tra Elia Circelli, ex responsabile dei bilanci, e il revisore legale Corrado Aprico. I due commentano le ispezioni di Bankitalia: «Comunque tutto sommato (...) quello che ci si attendeva». Secondo gli investigatori «a parere di Circelli erano stati confermati i ruoli di vertice della BpB anche se nel contenuto della lettera elaborata dalla Vigilanza di Bankitalia era stata evidenziata la circostanza esattamente contraria, ossia che Marco Jacobini si dovesse dimettere da presidente».
L’inchiesta della magistratura ripercorre le tappe del dissesto, anche ricordando l’aumento di capitale «funzionale alla decisione di salvare Banca Tercas, al fine di convincere Bankitalia a eliminare la sanzione del blocco e in qualche modo di acquisire un credito morale nei confronti della vigilanza». Fatto che effettivamente avvenne, perché Bankitalia tolse l’interdizione alle fusioni, permettendo di acquisire Tercas proprio mentre l’istituto abruzzese era commissariato.
Gli amministratori, secondo gli inquirenti, cercavano di convincere gli ispettori di Palazzo Koch. Quando esaminano le motivazioni dell’accusa di falso in prospetto, mettono in evidenza «la spinta derivante dal desiderio di “accattivarsi” Bankitalia, come risulta dai verbali della riunione consiliare del 17 ottobre 2013». La frode informativa veniva messa in atto anche con «le tabelle dei crediti deteriorati e utilizzo spregiudicato della tabella Deloitte sul prezzo azioni».