Che età aveva?
«Forse cinque anni. Una volta che era al lavoro, tolsi la chitarra dal fodero. E la tenni in mano goffamente. Avvicinai la faccia al buco, l’interno puzzava di colla di pesce. Mi ritrassi. Poi appoggiai l’orecchio e diedi una manata alle corde metalliche. Uscì un suono strampalato. Ma ebbi l’impressione di stare entrando in un altro mondo».
Ossia?
«Fu come se quel suono innescasse nella mia mente una visione armonica di sfere roteanti. In quel momento lo strumento divenne parte di me. Studiai la classica e negli anni Sessanta, come altri ragazzi della mia età, immaginai di suonare nei gruppi che via via si formavano. Era l’Italia che stava uscendo dal melodico tradizionale, un paese culturalmente in fermento. Per non pesare in famiglia lavoravo come disegnatore alla Siemens. Poi il boom degli elettrodomestici finì e l’azienda cominciò a licenziare. Nel 1964 fui messo alla porta. Mi restava la musica. Comprai una Fender. Mi sembrò di buon auspicio».
Cominciava la stagione dei Beatles.
«In realtà ero attratto più dagli Shadows e dal loro leader Hank Marvin. Grande chitarrista, Marvin ispirò Mark Knopfler. Oltretutto, la musica strumentale e melodica degli Shadows, credo fu un precedente interessante per i Beatles. Più per loro che per i Rolling il cui sound era basico e viscerale. Naturalmente cominciai ad amare il quartetto di Liverpool preferendolo alle sarabande di Mick Jagger. Considero Sgt. Pepper’s l’album senza il quale non vi sarebbe stato il rock progressive. Che poi è stata in parte la mia musica».
Con chi ha iniziato?
«In modo professionale con i Quelli, c’erano Gian Pieretti, Ricky Gianco, Teo Teocoli. Ottenemmo un successo pazzesco con Una bambolina che fa no no no, una cover tratta da un successo di Michel Polnareff. Collaboravo anche con gli artisti del momento: da Lucio Dalla a Paolo Conte, e poi Mina, Guccini, Battisti. Un’esperienza intensa che si trasformò in amicizia fu quella con Fabrizio De André, fin dal 1970 con la collaborazione a La buona novella».
Quell’anno fu anche la nascita della Premiata Forneria Marconi.
«Fondai il gruppo con Franz Di Cioccio, Flavio Premoli, Giorgio Piazza e Mauro Pagani che si aggiunse all’ultimo momento. È stata un’esperienza musicale importante per il rock nostrano».
Cosa vi distingueva dalle altre band italiane?
«La forte capacità visionaria, una certa venatura romantica che non scadeva nel melodramma che è tipico di questo paese».
Poi però suonaste Nabucco a Sanremo.
«Fu un tentativo di portare la musica classica negli schemi della musica popolare e il pezzo verdiano si prestava meravigliosamente. Lo suonammo insieme alla banda musicale dell’esercito, proprio nella serata conclusiva del Festival. A Sanremo sono stato altre volte. Ma sempre sullo sfondo, diciamo pure defilato. In un’occasione ricordai, con Stefano Accorsi e Claudio Santamaria, Fabrizio De André».
De André non partecipò mai al festival.
«Erano su piani difficilmente mescolabili. Fabrizio equiparava Sanremo a una specie di competizione sportiva dove al posto dei muscoli si usano le corde vocali. Ma una competizione, diceva, non è il luogo dal quale poter trasmettere le proprie emozioni».
E lei cosa pensa del Festival che apre a giorni?
«È come un termometro, una volta l’anno si mette sotto l’ascella per misurare la febbre della canzone popolare. Il problema è che se la febbre sale troppo si trasforma in una specie di malattia sociale. Per cui ogni discorso o scelta musicale diviene lo spunto per una polemica. Come Pfm ci invitarono più volte, ma non abbiamo mai pensato di partecipare alla gara.
Era nota la nostra posizione».
Diventaste in poco tempo uno dei gruppi italiani più apprezzati all’estero. Cosa suscitò questo interesse per voi?
«Il nostro primo concerto fuori dall’Italia lo facemmo in Inghilterra nel 1973. Poi ci fu un tour nel 1974 negli Stati Uniti. Aprivamo i concerti dei Santana e dei Beach Boys. La tournée culminò al Central Park di New York e finì a Toronto. Realizzammo un live riscuotendo un bel successo. Credo che non saremmo mai riusciti a fare tutto questo senza il nostro primo agente Franco Mamone. Fu il primo grande promoter a portare in Italia i gruppi inglesi e americani».
Perché per definirsi e definire la Pfm ha usato l’aggettivo visionario?
«Perché "visionaria" era l’essenza della musica progressive, una musica immaginativa capace, a seconda dei brani, di offrire le visioni più diverse. Quelle a cui mi sento più sensibile riguardano l’ecologia e la preziosità della vita. Il disco che più rappresentò questa dimensione fu Photos of Ghosts che aprì al nostro gruppo le porte degli Stati Uniti e la carriera internazionale».
Io ho definito new age questo atteggiamento e lei ha alzato il sopracciglio.
«Ma non c’è nulla di quella moda orientaleggiante cui allude. I miei punti di riferimento sono stati Rudolf Steiner e l’antroposofia, Jung e Hillman con le ricerche sull’inconscio collettivo. Tutto ciò ha segnato il mio personale approccio alla musica. La visione per me è essenziale. Ed è forse questo il motivo per cui qualche anno fa ho intrapreso la strada della pittura e della scultura».
Cosa tiene assieme questi differenti linguaggi?
«Il tratto che li unisce è dato dall’esperienza che ciascuno di noi può fare dell’invisibile. Questo è particolarmente vero nella musica. Quando ascoltiamo, cantiamo o suoniamo c’è una invisibile luce che illumina la nostra interiorità. Possiamo esserne consapevoli intellettualmente, ma è solo grazie alla nostra energia emotiva che siamo in grado di dare un colore a questo invisibile. Sono convinto che un musicista abbia una percezione molto più autentica dell’emozione che non uno psicologo».
Perché ha lasciato la Pfm?
«Perché un lungo tratto di strada si era compiuto. Oltretutto gli impegni si stavano moltiplicando. A parte il lavoro sul palcoscenico avevo deciso di insegnare musica aprendo una vera e propria scuola. Questo ha significato dare un peso diverso al successo, ai riconoscimenti. Per me avere successo oggi vuol dire vivere del mestiere che si ama. E non è importante se ami suonare, cantare o insegnare. Ciò che conta è sapere che al centro di tutto c’è l’emozione».
C’è anche molta retorica intorno all’emozione.
«Ne sono consapevole e so che un’emozione può orientare o disorientare la nostra vita, arricchirla o impoverirla. Ma il punto è che non ne possiamo fare a meno, per la semplice ragione che è una lingua, forse la principale, che ci consente di entrare in sintonia con l’altro. La musica, quell’esperienza di relazione in continua evoluzione, consente a certe condizioni di realizzare tutto questo».
Cosa vuol dire a certe condizioni?
«Quand’ero ragazzino, nei primi anni Sessanta, accompagnavo spesso mia madre a fare la spesa. Prima negozietti, poi supermercati; infine, crescendo, accompagnavo mia moglie nei centri commerciali. E ogni volta che mutava il contesto peggiorava il mio stato d’animo. Non sapevo bene a cosa attribuire quel malessere. Non agli scaffali pieni di merce e neppure alle luci. Non alla folla di potenziali acquirenti e neppure alla conformazione di quegli spazi. Credo che la mia estraneazione, il mio disorientamento, il desiderio di fuggire provenisse dai suoni disarmonici, dalla musica diffusa in modo osceno, dalle voci metalliche che segnalavano offerte commerciali particolarmente vantaggiose. Dove finivano le emozioni più belle se erano il disorientamento e lo schifo a prevalere?».
Intende dire che le emozioni non sono un processo spontaneo?
«Ci si educa ad esse. Per quanto riguarda la musica con il governo del sentire. La musica non va solo ascoltata, ma sentita. Non è un processo scontato. Sono stati necessari migliaia di anni per elaborare il mondo del suono. Vi hanno concorso filosofi, sacerdoti, sciamani, musicisti, scienziati. Il loro lavoro ci ha consentito di elaborare un codice musicale che permette non solo di salire su un palco per raccontarsi intimamente, ma anche di osservare il mondo che vive dentro di noi. È quello che io chiamo energia emotiva. La scuola che ho fondato e che oggi conta circa quattrocento allievi è nata con questo intento».
A un certo punto ha scelto tra suonare e insegnare. È stato complicato?
«Ovviamente continuo a suonare salendo sui palchi e facendo la mia musica. Ma quando ho deciso di lasciare la Pfm è stato perché dovevo dare la priorità a una delle due opzioni. E ho scelto la scuola. Ho fondato a Milano il Cpm (Centro professione musica) nella convinzione che fosse fondamentale occuparmi degli effetti del suono sulla persona. Ho cercato di guardare cosa si nascondeva dietro le regole armoniche, dietro gli aspetti tecnici e espressivi dei linguaggi musicali e dunque ho intensificato i miei studi. Da più di un decennio cerco di applicare questi risultati al lavoro svolto in carcere (soprattutto a San Vittore) e in comunità, con ragazzi dal difficile passato e dall’incerto futuro. Storie spesso drammatiche di dipendenza, di emarginazione, di violenza. Ma se la musica ha un senso, allora deve arrivare anche a questa umanità disagiata. È stato uno degli insegnamenti di De André».
Perché il suo mito continua a vivere?
«Potrei risponderle perché è nella natura del mito prolungare la propria immagine oltre il tempo e lo spazio. Fabrizio fu un misto di originalità e di tradizione, consapevole che una canzone andasse non solo ascoltata ma anche sentita. Ne parlai spesso con lui. Lungo certe sere in cui gli raccontavo la mia scoperta di Steiner. Rispose che quel pensiero si sposava bene con la sua natura anarchica e che il trascendente non ha un centro privilegiato. Era davvero interessato al diverso, all’emarginato, alla frequentazione della scuola degli ultimi. Una volta mio figlio mi chiese perché non facevo più l’assolo di Amico fragile. Risposi che quel pezzo era troppo drammatico perché lo potessi suonare a cuor leggero. E che per farlo, ancora una volta, avrei dovuto sopportare un dolore troppo grande. Ho vissuto certe sue canzoni, alle quali ho contribuito con la mia musica, con la purezza del sentimento».