Robinson, 1 febbraio 2020
Biografia di Paolo Volponi
«Ho ancora delle inquietudini da selvatico. Mi piace chiamarmi Volponi e penso all’eroismo della volpe che, presa in trappola, si morde la zampa pur di scappare. Io sono così, non riesco a rimanere chiuso in trappola e mi strappo la gamba pur di scappare». Lui, al termine della sua vita, già molto malato, amava definirsi così. Ed è la migliore definizione per un letterato poeta sociologo che abbiamo troppo presto dimenticato. Paolo Volponi (1924-1994) è stato un uomo coraggioso, che si è portato con sé una faccia dell’adolescente impacciato, ma curioso, tenace sotto l’aspetto del timido; vincitore di premi letterari, chiamato da industriali e governi a dirigere una politica culturale del Paese. ( Che tempi erano quelli!). Riparlare delle sue opere porta anche ad interrogarsi sulle sue capacità profetiche: è tempo di riscoprirlo, di riprendere in mano i suoi libri, le sue idee o il mondo di oggi è troppo cambiato da quello che era il suo? Esistono oggi scrittori come lui? Tutte domande difficili, anche perché Volponi, credo l’unico tra i letterati italiani del Novecento, è stato molte cose insieme: un poeta, un dirigente industriale e un uomo politico, in parti uguali.
Nato nella” città ducale”, una fascinosa Urbino in cui ancora oggi la principale attività è quella di studiare ed insegnare, lo studente liceale Volponi nel 1943 rifiuta la leva di Salò e fa in tempo ad unirsi a una banda di partigiani di Giustizia e Libertà, mentre impara la Divina Commedia a memoria; poi si laurea in legge e il mitico rettore dell’Università, Carlo Bo, dà parere favorevole alla stampa, in 120 esemplari, di una sua raccolta di poesie, Il ramarro, un misto di ermetismo e realismo. Trasferitosi a Milano, frequenta scrittori come Montale, Vittorini, Sereni, Pasolini, ma ha l’incontro della vita quando Adriano Olivetti, l’industriale utopico che l’Italia perse troppo presto, lo chiama a lavorare nella sua fabbrica di macchine da scrivere, prima come titolare di un’inchiesta sulle condizioni del Meridione, dove Olivetti sta promuovendo l’industrializzazione, poi come capo dei servizi sociali e infine addirittura come capo del personale. L’utopia olivettiana fu un momento magico per gli scrittori italiani che allora ne fecero parte: Giovanni Giudici, Ottiero Ottieri, Tiziano Terzani, Franco Fortini, Geno Pampaloni si fecero le ossa a contatto con mense aziendali, colloqui di assunzione, rapporti con i sindacati, organizzazione delle colonie estive. Nacquero riviste, progetti, film: fu la breve stagione italiana della” letteratura industriale”. Ma la Olivetti, dopo la morte del suo fondatore nel 1960, perderà progressivamente la sua ricerca visionaria di diversi rapporti sociali e Volponi la lascerà dopo essere arrivato però, nel 1971, ad essere proposto addirittura come amministratore delegato. Viene però subito chiamato da Umberto Agnelli a dirigere la” Fondazione” torinese della Fiat, incaricato di studiare un nuovo rapporto tra fabbrica e città; ma il rapporto cessa nel 1975 perché Volponi annuncia pubblicamente che alle prossime elezioni amministrative voterà per il Partito comunista. Umberto Agnelli lo costringe a dimettersi; il Pci effettivamente vince le elezioni e Torino elegge un sindacato comunista, Gianni Agnelli, più uomo di mondo del fratello, chiede a Volponi di tornare, ma lo scrittore-sociologo rifiuta. La Rai gli chiede di dirigere un grande sceneggiato televisivo sugli italiani, lasciandogli completa libertà, ma il progetto non vedrà mai la luce. Nel 1983 viene eletto senatore indipendente nelle liste del Pci ad Urbino. Il suo programma: «dare vita ad un’industria liberante e veramente al servizio della collettività, piuttosto che del capitale».
Al momento della scissione del partito, aderirà a Rifondazione Comunista, che però presto abbandona, perché «troppo cedevole alle vecchie suggestioni degli apparati e dell’interesse del partito». Resterà parlamentare fino al 1993, nonostante una salute sempre più precaria. In una lunga intervista poco prima della morte, dichiara che sia nella scrittura che nella vita pubblica, è sempre stato guidato dagli insegnamenti di Karl Marx, in particolare dalla visione del mondo dei suoi «manoscritti economici filosofici» del 1848 in cui si previde il futuro del capitalismo, la sua forza distruttiva, la resistenza che alla sua azione avrebbero opposto gli esseri umani e la natura. E questi temi sono presenti, in una lingua finissima, cesellata e nitida (la pittura del Rinascimento urbinate sembra essersi trasferita nella sua penna; Volponi, per esempio, è in grado di enumerare con competenza le varie qualità di erbe selvatiche che crescono tra le antiche mura della città ducale) in tutte le sue opere, da Memoriale ( 1962), a La macchina mondiale, ( 1965, premio Strega), a Corporale ( 1974), a Le mosche del Capitale ( 1989), fino alla conclusione della sua attività letteraria, La strada per Roma (1991, di nuovo premio Strega – Volponi è l’unico scrittore italiano ad averlo vinto due volte), che è in realtà il suo romanzo di formazione ambientato nell’Italia «torbida e innocente degli anni che seguono il trapasso del dopoguerra al miracolo economico».
A rimetterli in fila, i romanzi di Paolo Volponi sono probabilmente la migliore testimonianza del mutamento del paesaggio italiano dal dopoguerra in poi. La fuga dalle misere campagne e il sogno di una palingenesi nella città industriale, nei primi anni Sessanta si trasformano per Albino Saluggia, il protagonista di Memoriale, nella scoperta della paranoia, della malattia e dell’inganno. Quando sarà licenziato perché tubercolotico e quindi non più produttivo, Saluggia si sente come un «Cristo di campagna cui l’industria prepara la croce»: «quando l’ago del pneumotorace si infilava tra le mie costole ero alla fine di tutto e non sapevo più che cosa pensare. Mi sentivo molto solo… con un dolore che non veniva spento dalla speranza di poter infine guadagnare un destino migliore. Oggi scrivo questa lettera a tutti e a nessuno ma so che è diretta, prima che a ogni altro, a me stesso di quel tempo». Negli altri libri ci sarà una galleria di altri personaggi – operai, ma anche dirigenti d’azienda, giovani ingenui, ma tutti accomunati, nelle mutazioni del corpo, specialmente, dal fatto che non reggono di fronte a qualcosa di più potente di loro: la presa di potere della finanza nelle imprese, la distruzione dell’ambiente, la preparazione di guerre, in un crescendo di pessimismo e di malinconia. Per l’assoluta sincerità che li guida – la sua opera ha una tesi dichiarata da dimostrare: la disumanità del capitalismo finanziario – i libri di Volponi costringono il lettore che li affronta adesso, a tanti anni da quegli avvenimenti, a chiedersi se ci” aveva azzeccato” o se i suoi romanzi erano troppo influenzati da un’ideologia superata e fallace.
A favore della prima ipotesi, mi sono tenuto nel carniere l’argomento principale in favore del Volponi profetico. È un breve romanzo che scrisse nel 1978, e che Einaudi pubblicò con il titolo Il pianeta irritabile: una favola post atomica, come sarebbero stati, ma molto anni dopo, La strada di Cormac McCarthy o la serie cinematografica di Mad Max Furious. Siamo nel 2293, il capitalismo è finalmente riuscito ( quasi) a distruggere la Terra, ma nel deserto sopravvivono quattro esseri viventi – la scimmia Epistola, feroce e terrorista, l’oca Plan Calcule, l’elefante Roboamo, che fa paura, ma è pauroso e il nano Mamerte. I quattro si preparano, guidati da un misterioso imitatore del canto degli uccelli, a sostenere l’ultima battaglia per la loro sopravvivenza. Ce la faranno? La risposta non la possiamo rivelare, ma certo va a merito del timido scrittore di Urbino aver saputo immaginare uno spaventoso mondo oggi reale di impazzimento del clima, ribellione della natura, incoscienza della tecnologia, cecità della finanza, riduzione allo stadio primordiale degli organismi viventi costretti a difendersi da qualcosa che è totalmente fuori dalla loro capacità di controllo.Però… la volpe presa in trappola non esita a tagliarsi una zampa pur di scappare.
Esistono ancora in Italia scrittori disposti a fare altrettanto? E infine: a chi assomiglia Volponi? Per molte cose direi a Gramsci