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 2020  febbraio 01 Sabato calendario

Memorie di uno spettatore incallito di Sanremo

Gli stili della musica non cambiano mai senza cambiamenti nelle leggi più importanti dello Stato. (Platone) 


Il festival della canzone italiana di Sanremo è, o almeno dovrebbe essere, la festa della musica: una rassegna della qualità della nostra musica leggera (quella che Gino Castaldo preferisce definire popolare o pop), delle sue costanti e dei suoi mutamenti. Da tempo non è più così. Della musica — intesa come complesso di suoni, organizzati intorno ai tre essenziali elementi di armonia, ritmo e melodia — quasi più nulla si ascolta e si discute. E anche qui, ahimè si parlerà d’altro perché Sanremo, in realtà, è da tempo solo un ottimo pretesto. Il Festival della canzone italiana non ammette (meglio: non ammetteva) la neutralità, la posizione intermedia, la mediazione. Sanremo prevede sì o no, favorevoli o contrari, quelli che "mi diverto un mondo" oppure quelli che "mi fa schifo". Per mezzo secolo ho militato nel primo schieramento, poi qualcosa è mutato, e il Festival si è rivelato incapace di divertire e di registrare in alcun modo i cambiamenti profondi che conosceva la società italiana, diventando un piccolo fenomeno di costume come tanti altri, futile e vanitoso. Prevale un clima di sostanziale continuità, dove, per quanti sforzi si facciano, gli scandali ricordano gli scherzi ai preti fatti da chierichetti birichini e le polemiche si spengono prima ancora che il fuoco possa attecchire. Assente la musica, siamo tutti indotti (coloro che ancora resistono) a considerare il Festival per ciò che ci dice dell’Italia e di noi. In genere, e da tempo, pochissimo.


Tabù
Ebbi una conferma di quanto appena detto, quando nel 2008 Anna Tatangelo cantò Il mio amico, scritta, manco a dirlo, da Gigi D’Alessio. I mass media parlarono di una canzone destinata a sdoganare l’omosessualità e venne persino annunciata qualche interrogazione parlamentare. L’effetto, in realtà, fu minore di quello di un petardo ed Elio de Le Storie Tese, nel Dopofestival, ne rivelò la scelleratezza recitando alcuni versi del testo, che qui doverosamente riporto: «Se a chi dice che non sei normale /Tu non piangere su quello che non sei/ Lui non sa che pure tu sei Uguale a noi/ e che siamo figli dello stesso Dio». Ovviamente il tema era stato sdoganato già da decenni, qualche volta allusivamente, altre in modo esplicito come in Pierre(1976) dei Pooh e in Paolo Pà (1980) del Banco del Mutuo Soccorso, in molte canzoni di Ivan Cattaneo e nel 1973, da un album Il vestito rosa del mio amico Piero di Gian Pieretti e Ricky Gianco. E gli stessi Pooh — questa volta al Festival del 1990 — avevano cantato, seriosissimi e ispirati: «Ci sono uomini soli per la sete d’avventura/ perché han studiato da prete o per vent’anni di galera/ per madri che non li hanno svezzati/ per donne che li han rivoltati e persi/ o solo perché sono dei diversi». Insomma, come si vede, il Festival, già nel 2008, era maledettamente in ritardo.
E l’anno successivo sul tema "omosessualità", avrebbe detto tutto con innocente ferocia Checco Zalone nella sua Gli uomini sessuali (dal film Cado dalle nubi, 2009): «Gli uomini sessuali /Non c’avranno gli assorbenti / ma però c’hanno le ali per volare via/ con la fantasia da questa loro atroce malattia», parole definitive.


Testimonianza
Anch’io ho partecipato al festival di Sanremo. Purtroppo, non come cantante (escluso per ingiusta decisione della commissione selezionatrice), ma come giurato, all’età di 17 anni. Allora, il voto che decideva la vittoria, era diviso tra quello degli esperti e quello di una giuria popolare, articolata in varie sezioni dislocate in molte città italiane. Per ragioni imperscrutabili, io venni chiamato a far parte di quella della città di Sassari, insieme a colei che sarebbe diventata la più celebre scrittrice italiana per l’infanzia, Bianca Pitzorno. Seduti nella sala riunioni del giornale locale La Nuova Sardegna, tutti noi giurati, davanti a un grande televisore seguimmo il Festival. La frattura generazionale si manifestò evidentissima quando apparve Caterina Caselli, per la prima volta con la pettinatura inventata per lei dai Vergottini, che si erano ispirati ai Beatles. Mentre gli altri giurati, maturi signori e signore, inorridivano, io e Bianca ne fummo entusiasti. Ma al momento del voto fummo messi in mortificante minoranza, secondo quanto avveniva anche nelle altre giurie popolari sparse per l’Italia. Infatti vinsero Domenico Modugno e Gigliola Cinquetti con il bel brano Dio, come ti amo (dettaglio sconosciuto ai più: la Cinquetti cinquant’anni dopo sarebbe stata una convinta sostenitrice del Pd di Romano Prodi), ma la Caselli arrivò seconda. Non fu quella, certo, la prima volta che seguii con attenzione e trepidazione il Festival, prima in casa di parenti che possedevano l’apparecchio televisivo e poi finalmente in casa nostra, quando ce ne potemmo permettere uno. Nel 1964 partecipava Gino Paoli che presentava Ieri ho incontrato mia madre (l’unica, proprio l’unica sua canzone che non mi piace).
La sua apparizione sullo schermo non lasciò indifferenti: completamente vestito di nero, portava un gigantesco paio di occhiali del medesimo colore, (occhiali, poi via via ridimensionati e normalizzati), evocando il senso di un’autentica tragedia familiare. Mia zia, seduta su una sedia dietro di me, al vederlo, si intenerì, convintissima («poverino») che si trattasse di un cieco (ironia del destino), ammesso al Festival per compassione. La parola cieco circolò con rispetto nel nostro tinello accrescendone l’angoscia, già suggerita da parole come: «Ieri ho incontrato mia madre/ e ha pianto un poco perché/ sa che non sono più suo/ sa che ora vivo per te». I grandi non vedenti della musica internazionale, come José Feliciano e Stevie Wonder, erano ancora di là da venire e Ray Charles, essendo addirittura anche afro- americano, apparteneva a un’altra categoria.


Nazional-popolare
La concezione estetica di Antonio Gramsci può essere riassunta, in estrema sintesi, nella categoria di nazional- popolare. Secondo questa, i prodotti culturali dovrebbero esprimere i tratti distintivi dell’identità nazionale perché siano riconosciuti come rappresentativi della comunità. Questo concetto è oggi obsoleto, per ragioni sociali e culturali profonde e a seguito delle trasformazioni avvenute nel tessuto economico e nella mentalità collettiva: ma ha avuto ampio corso fino a tutti gli anni Ottanta. Tra coloro che lo hanno più spesso manovrato va ricordato Pippo Baudo (per 13 volte conduttore di Sanremo), che a tal punto se ne rese interprete da identificarsi con esso. («Io sono il nazional-popolare»). Con ciò si vuol dire che l’intero fenomeno-festival (dunque, non solo le canzoni) esprimeva, meglio di molti altri eventi, il carattere nazionale.
Un’identità collettiva ancora di maggioranza che si riconosceva nei sentimenti e negli orientamenti della musica proposta da Sanremo, nell’immagine dei suoi interpreti, nel linguaggio complessivo di quanti vi partecipavano (dal sindaco della città, fino ai pompieri benevolmente intervistati dal conduttore), nella rappresentazione complessiva del nostro paese, sintetizzata nei tratti e nei colori di una cartolina d’altri tempi. Oggi, palesemente, non è più così.


Nazional-popolare bis
Se io in un articolo per questo giornale utilizzassi la parola "resilienza", sarei severamente rimbrottato dal direttore, che mi accuserebbe di elitismo e di scrivere difficile. Eppure quella parola verrà portata a Sanremo da Tecla Insolia, nata a Varese nel 2005 (avete letto bene, nel 2005), con la canzone 8 Marzo;  resilienza", nel linguaggio delle discipline della psiche, indica la capacità di affrontare positivamente gli eventi traumatici. Per la verità, nel testo della canzone, da me coscienziosamente analizzato, il termine c’entra come i cavoli a merenda, ma tant’è.
Consideriamolo, in ogni caso, come un indizio e valutiamo se ci dica qualcosa.
Se adottassimo quella chiave di interpretazione del Festival di Sanremo, che lo vorrebbe fedele "specchio dell’Italia di oggi", l’uso di quella parola nella canzone 8 Marzo dovrebbe indurci a gravi pensieri: e magari a qualche considerazione ottimistica sul livello culturale delle giovani generazioni. Il sospetto è che, invece, sia stato buttato lì a caso semplicemente per accendere una qualche curiosità verso un connotato di apparente " modernità", mentre la linea melodica della canzone è convenzionale in maniera micidiale. È come quando si distribuisce qua e là qualche parolaccia (voi ignorate, signore e signori, quante volte nei testi della nostra musica leggera compaia la parola cazzo).
Tutto ciò per dire che pensare il festival di Sanremo come "specchio dell’Italia d’oggi", sia pure contraddittorio e approssimativo, è una baggianata. Anche perché, la gran parte di ciò che si scrive a proposito del Festival, è viziato da un errore di metodo a dir poco catastrofico, al quale io stesso fatico a sottrarmi. La canzone, vero cuore della musica leggera, è una composizione autonoma, fatta di musica (innanzi tutto musica), poi interpretazione, quindi testo, arrangiamento, esecuzione. Valutare una sola componente è esattamente come giudicare un’opera lirica a partire dal libretto. Eppure questo errore metodologico viene costantemente reiterato e porta a conseguenze perniciose, quali considerare una canzone "come una poesia" e un autore "come un poeta". Col che si fa un danno alla poesia, in genere di qualità superiore a quella dei testi delle canzoni, se considerati isolatamente solo come parole scritte; e un danno alla musica leggera. L’autonomia, che va riconosciuta a essa, consente di giudicare bellissimi o bruttissimi i versi di una canzone, sulla base di criteri che sono diversi da quelli della critica poetica.
Dunque, molto semplicemente, una canzone non è più o meno bella di una poesia: è diversa e va valutata con parametri diversi. Un esempio per tutti. Se leggiamo il testo di Sapore di sale, si vedrà immediatamente che è qualcosa di elementare, ( tanto più se lo confrontiamo con quelli, che so?, di Senza fine o di La storia di un ricordo dello stesso autore). Ma se ascoltiamo la canzone con quella sua musica trascinante, nell’arrangiamento di Ennio Morricone (!) e con la magnifica interpretazione di Gino Paoli, ci si commuove fino alle lacrime (almeno chi ha il cuore tenero). Quando mi innamorai di Anna Maria Mazzini, detta "la tigre di Cremona". Era il 1961 e Mina portò a Sanremo Le mille bolle blu di due tra i più bravi autori di musica leggera, Vito Pallavicini e Carlo Alberto Rossi. L’interpretazione di Mina fu eccezionalmente matura e sorprendente per novità espressiva. Io provai un vero e proprio colpo di fulmine - compivo in quei giorni 13 anni - mentre la " tigre di Cremona" (nata a Busto Arsizio, in verità) nel ritornello muoveva le lunghe dita davanti alla bocca, sfiorandola in un movimento rapidissimo che mimava un gioco infantile. Il mulinello delle dita carezzava il labbro superiore e poi cadeva su quello inferiore, producendo un suono che corrispondeva alla sonorità e all’intensità della B di "bolle" e di "blu". L’effetto era irresistibile e, per me, eccitante. Ma già prima un brano misterioso, Chihuahua, mi aveva attratto. Mina lo interpretava in modo sinuoso e circolare, su un testo di Giorgio Calabrese. Già il titolo risultava indecifrabile: una razza canina? il nome di una città messicana? un saluto in un dialetto polinesiano? e i versi ricorrevano a parole insolite e allusive, quali «illanguidivano nei tramonti» e «esasperati dal desiderio». Come sempre, e come nella migliore musica leggera, a risultare determinante era l’interpretazione. Gli addetti ai lavori, a proposito dei più grandi, sono soliti dire: potrebbe cantare anche le pagine dell’elenco del telefono. Ma Mina ha fatto molto di più (o di peggio o di meglio, scegliete voi): nella canzoneOssessione 70, una bossanova composta da Fausto Cigliano, ha cantato l’intera formazione della nazionale di calcio che partecipò ai Mondiali del Messico, del 1970. Come prevedibile, la canzone non è memorabile, ma per i cultori del genere, sentire la voce della cantante che inizia con "Albertosi Albertosi.." è un’esperienza cui è difficile rinunciare. Anche perché, più avanti, Mina solfeggia: «Juliano e Poletti /Furino e Gori/ non sono rimasti sempre fuori/ Nicolai Nicolai/ ha giocato un’ora /Vieri, Prati/ Ferranti, Puia/ invece mai» (trovo conferma dei miei ricordi in un prezioso sito "Football a 45 giri"). La classe non è acqua.


Adriano Celentano e la lotta di classe
Nel 1970 Adriano Celentano e Claudia Mori portano al Festival Chi non lavora non fa l’amore. Il primo, già sospettato di idee reazionarie e sessiste (ma la terribile cover Stai lontana da me è interpretata in modo strepitoso), e quella "chi non lavora" venne percepita da molti come l’espressione di una sorta di volontà di rivincita contro la classe operaia e il suo recentissimo "autunno caldo". È una lettura possibile, ma - arrampicandomi sugli specchi forse per un eccesso di militanza celentanoide - a me sembrò l’esatto contrario: come se Celentano avvertisse, grazie a una sorta di istinto ferino, che i grandi movimenti collettivi cedessero il passo all’incertezza e alla stanchezza, incontrassero nuove ostilità, cominciassero a produrre contraddizioni anche interpersonali. Il ciclo della conflittualità sociale, dopo aver raggiunto il suo picco, cominciava a declinare e a esaurire la propria egemonia " morale". La prima opposizione emergeva in famiglia. E la lotta di classe cominciava a manifestarsi tra moglie e marito.


C’è Rock e Rock
Nel 1983 si ha l’apparizione di Vasco Rossi al Festival. Con Vita spericolata (già l’anno precedente con Vado al massimo aveva suscitato un qualche scalpore). E fu davvero un’apparizione: una sorta di avvenimento miracoloso, o demoniaco (i due termini non sono così distanti, in realtà). Non a caso, tra le definizioni che i vocabolari più aggiornati offrono del termine c’è anche quella relativa alla comparsa di esseri soprannaturali o di corpi celesti che si fanno visibili in cielo. Certo, guai a esagerare, ma l’intervento di Vasco Rossi ebbe l’effetto di rompere la routine e far saltare gli schemi. Per una parte, probabilmente maggioritaria, del pubblico, fu un vero scandalo. Alcuni commentatori ipotizzarono che l’uomo fosse in stato di alterazione, a seguito di una o di un’altra dipendenza, di uno o di un altro abuso; e Vasco Rossi si guardò bene dallo smentire.
Non sono in grado di dare una lettura attendibile della sua condizione, ma è certo che la sua interpretazione fu splendida e che quella canzone era un prodotto pressoché perfetto. È altrettanto certo che Vasco Rossi fosse preda di una fifa blu e di uno stato di panico che lo indusse per 190 secondi a tenere sempre le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni e di un orripilante giubbottino di pelle che si fermava all’altezza della vita. A molti non piacque. Ma quella esibizione può considerarsi davvero sovversiva proprio perché musica e interpretazione costituivano (ancor più del testo) una vera rottura della linea melodica prevalente, già da tempo violata a Sanremo, da decine di cantanti e di gruppi, ma mai tanto profondamente ribaltata. Da una composizione rock così radicale. La mia opinabilissima valutazione è che, fino ad allora, tutto il rock sanremese era stato liofilizzato e disciplinato, aromatizzato e infantilizzato. Con Vita spericolata si manifestava il Male. Certo, sempre piccolo-borghese e provinciale, ma comunque temibile se un giornalista arrivò a chiedere l’arresto immediato di Vasco Rossi (o meglio: dopo un rigoroso test antidroga).