la Repubblica, 1 febbraio 2020
Nella mente del criminologo Adolfo Ceretti
«Ceretti, avevi ragione, nonera unacazzata quella che mi avevi proposto. Ne valeva la pena». Se dopo quarantasette anni trascorsi dietrole sbarreil celebre bandito Renato Vallanzasca si rivolge così al criminologo che l’ha convinto a incontrarsi con una delle sue vittime, vuol dire che davvero la giustizia riparativa, che aspira alla ricomposizione dei punti di vista senza pretesa né di perdono né di penitenza, può aprire uno squarcio di consapevolezza. Tant’è che Vallanzasca – non chiamatelo “il bel René” se no davvero s’incazza – accomiatandosi da Adolfo Ceretti dismette la sua corazza di seduttore e confida: «Ho deciso di stare almondo perché voglio uscire di qui prima di morire».
Potrei continuare a raccontarvi quali siano le regole impulsive a cui s’è ispirata tutta la vita del bandito della Comasina, cominciando dalla pessima idea di quei tre giovani milanesi che con la loro utilitaria gli soffiarono il posto in cui stava parcheggiando l’auto sportiva (rubata) per andare al cinema con la ragazza. Ma questo è solo un capitolo fra i tanti delle memorie di un criminologo che non cerca effetti speciali, non si esibisce nei talk, ma aspira a «trovare un posto al disordine». Confrontandosi con il male che è dentro di lui, per entrare in sintonia col male che ha spinto altri a diventare violenti.
Vastissimo è l’orizzonte delle esperienze sentimentali e scientifiche che rendono questo libro un unicum affascinante. Ci sono i casi più noti della cronaca nera italiana – da Erika e Omar ai satanisti di Lecco fino al killer dellaUno Bianca, Alberto Savi —ma anche i protagonisti della mediazione fra vittime e carnefici del dopo apartheid in Sudafrica; ci sono i mafiosi, e i brigatisti rossi che accettano il confronto con i congiunti degli innocenti presi a bersaglio, per poi addentrarci nelle favelas brasiliane e nella bolgia infernale delle carceri boliviane.
Senza falsa modestia, Ceretti si descrive tra i criminologi che «non solo in Italia, più si occupano di cose concrete, del cuore, dell’anima delle persone, pur senza avermaiperso ilmio interesse verso la costruzione di ipotesi teoriche». Chi lo conosce sa quanto sia timido e schivo, ma la sua autorevolezza di ricercatore nei territori inesplorati della giustizia riparativa spazia ormai su almeno tre continenti.
Cosa sarà mai questa giustizia riparativa? Per spiegarlo non trovo di meglio che descrivere la mattinata che pochi anni or sono hoavuto modo di vivere, grazie a un suo invito, nella palestra del carcere Due Torri di Padova, dove si erano radunati centinaia di detenuti condannati definitivi per reati gravi, spesso in regime di massima sicurezza, con i loro parenti. Difficile trattenere le lacrime mentre, uno dopo l’altro, gli ergastolani salivano a rilasciare la loro testimonianza accanto ai figli che per anni il vetro antiproiettile gli aveva proibito anche solo di tenere per mano. E riconoscevano come fossero stati proprio quei ragazzi a farli desistere dal codice ottuso e violento della criminalità, per tentare di recuperare l’umanità e l’affettività perdute. Dietro c’è un lavoro improbo, soggetto a fallimenti ma prezioso, per arrivare a dirsi – «in uno spazio di parola protetto dai mediatori» – «il lampo e il temporale causati dall’offesa altrui» che li aveva inferociti. Possibile «punto di svolta per ritrovare un’immagine di sé meno opaca e negativa».Il titolo del libro, Il diavolo mi accarezza i capelli, scaturisce proprio da un drammatico confronto fra due detenuti in lite, giunti a promettersi la morte: «Professo’, ogni sera, prima che io mi addormenti, il diavolo viene e mi accarezza i capelli». Per esplorare i meandri interiori del male che genera violenza, Ceretti compie la scelta più audace:guardadentrodi sé. Perchéanche a lui, anche a noi, nella vita succede che il diavolo accarezzi i capelli. Ecco dunque la ferita di un padre che cade in depressione e smette di parlare quando Adolfo è ancora adolescente. La madre con cui fatica a comunicare e che legge di nascosto il biglietto infilato da Adolfo nella tasca di papà prima che nevenga chiusa labara. E ancora l’identificazione nella fragilità di una nipote, il buco nero dei malesseri chelo assalgono sottoforma diuna sindrome chiamata post viral fatigue. L’umiltà con cui affronta questa fatica introspettiva gli consente un approccio alla dimensione criminale davvero inedito. Ne trae alimento anche la ricerca teorica che lo fa entrare in relazione con i colleghi impegnati a livello internazionale in questa nuova branca del diritto. Dove la letteratura, il cinema, la poesia e le arti figurative – che arricchiscono il racconto immaginifico di questo libro – lo aiutano a oltrepassare i limiti angusti della criminologia clinica ereditata da Cesare Lombroso.
Lo avevano intuito i Maestri cui Ceretti rende omaggio con lamaiuscola e con ritratti affettuosi. Il primo è Giandomenico Pisapia, estensore del nostro Codice di procedura penale, che, scegliendolo come assistente, lo definiva «l’ultimo puledrino della mia scuderia ». Il secondo è stato il magistrato Guido Galli, ucciso con tre colpi di pistola davanti a un’aula dell’Università Statale di Milano nel 1980 da un commando di Prima Linea. Farà molta fatica, Adolfo Ceretti, a accettare una relazione personale con l’autore di quell’omicidio: Sergio Segio. Solo dopo diversi incontri col “nemico” troverà il modo di dirgli, durante una cena, quale ferita ha inferto pure a lui. Ma riunendo con pazienza, per anni, un gruppo di lavoro basato nel Centro San Fedele di Milano, si realizzerà lo straordinario Libro dell’incontro, opera collettiva, insieme, di vittime e responsabili della lotta armata. Quanto sia stato difficile, può intuirlo chi si è appassionato nella lettura del romanzo Patria di Fernando Aramburu. Ma questo non è un romanzo. E le incomprensioni non sono mancate, ad esempio nel febbraio 2016, quando la Scuola superiore della magistratura ha rifiutato di ospitare un loro intervento. La giustizia riparativa, che cerca di soddisfare il bisogno di comprensione senza offrire in cambio premi o sanzioni, è solo ai suoi primi passi. Deve fare i conti con la propagazione della paura che diventa passione collettiva e orienta le mentalità.
Al centro dell’esperienza di vita di Adolfo Ceretti resta sempre la fisicità e la vulnerabilità dei corpi, che lo spinge all’interpretazione e nei modi più diversi lo turba. Era ancora giovanissimo quando giunto a Londra, ospite di un amico prezioso come Claudio Abbado, s’imbucò in una festa della rockstar Boy George; per darsi alla fuga quando i partecipanti, in uno sballo collettivo, cominciarono a denudarsi. Quale estrema diversità dai corpi tatuati degli adolescenti «in conflitto con la legge»ammucchiati l’uno sull’altro a migliaia dentro la prigione di Palmasola a Santa Cruz di Bolivia. Eppure è in quella dimensione feroce e selvaggia che il criminologo in cerca di riparazione deve saper immergersi.