Tuttolibri, 1 febbraio 2020
Frammenti di Virginia Woolf
Le ultime parole della madre a sua figlia Virginia Woolf che esce dalla stanza in punta dei piedi sono state «tienti dritta, Capretta mia». Muore il 28 maggio 1938, lasciando dietro di sé un’enorme disperazione e sette figli. George, Stella e Gerard, nati dal primo matrimonio con il grande amore conosciuto a diciott’anni, l’uomo perfetto, l’eroe bellissimo e magnanimo che, scrive Virginia, «si protese a cogliere un fico per mia madre; venne a suppurazione un ascesso; morì di lì a poche ore. Questi sono gli unici fatti che so di quattro anni di felicità». Dopo la morte di Herbert Duckorth e un lutto che riempì dedicandosi ai poveri e ai malati, Julia sposò lo scrittore e saggista Leslie Stephen, che aveva già una figlia, mentalmente instabile. Con lui, oltre a Virginia, ebbe Vanessa, Thoby e Adrian.
Momenti di essere, edito da Ponte alle Grazie, con prefazione di Liliana Rampello e traduzione di Adriana Bottini, è una raccolta di scritti, già pubblicata in Italia da La Tartaruga. Autobiografici ma non privati, sembrano confidenziali interviste per la leggerezza quasi incauta con cui la scrittrice racconta la sua famiglia, la sua vita. Non lettere o diari ma veri racconti, sotto l’artificio letterario dell’istigazione: Vanessa pensa che se non mi sbrigo presto dimenticherò tutto, Julian Bell deve sapere com’erano i suoi nonni, Molly mi ha imposto di tirare fuori i ricordi del Vecchio Bloomsbury… Scritti tra il 1907 e il 1940 hanno una densità diversa, crescente. Dalla svagata intelligenza dei primi fino all’acuta spregiudicata libertà delle storie di Bloomsbury.
È emozionante vedere come la scrittrice metta a fuoco il suo talento davanti ai nostri occhi. Esordiente già perfetta, diventa con gli anni l’autrice sperimentale, curiosa brillantissima dei romanzi che conosciamo. Si cerca, si toglie di dosso quello che non le serve e riveste gli abiti nuovi della propria indipendenza. Anche il suo aspetto cambia, e soprattutto la sua sudditanza alle forme. «Ci facemmo abiti del cotone stampato che piace tanto ai negri, ci travestimmo da quadri di Gauguin e scorrazzammo per Crosby Hall… Vanessa e io eravamo praticamente nude». Il primo scritto, «Reminiscenze», scorre mimetizzato da semplice ricordo dell’infanzia. Woolf si nasconde, finge di essere soltanto uno scrittore magnifico e non uno degli artisti più importanti del secolo, qualcuno che cambierà non solo la storia della letteratura ma lo sguardo filosofico e politico sul femminile.
Già in «Lo schizzo del passato» comincia però a sporgersi, a ragionare mentre fila la storia. Se io racconto, se la persona a cui sono accadute le cose non compare, si chiede, rimangono solo gli eventi. E gli eventi cosa sono, a che servono se non sappiamo chi li sta vivendo? Io che parlo, trattandosi di un autobiografia, cosa so di me? Chi può dirmi se ero intelligente o stupida, appassionata o fredda, bella o brutta? La bellezza: un’ossessione. Un abito che le si stringe addosso, l’incubo del passato dolente e anche violento da cui affrancarsi. Sarebbe bello non doversi confrontare con la simmetria del viso o il candore della pelle, sogna. Non riuscire a entrare in un negozio per ricomprare un reggicalze diventa motivo sufficiente per saltare un invito a cena.
Arretra il femminile, forse anche sotto l’assedio di quell’orribile fratello, George, del quale nel racconto intitolato «Hyde Park Gate n 22» si rivela, oltre la volgarità, il ruolo di molestatore, violentatore, sembra, sia di Virginia che di Vanessa. Poi, di colpo, quel mondo scompare. Vanessa vendette, bruciò, mise da parte, stracciò, svuotò la casa di Hyde Park Gate. La famiglia si smembra e le due sorelle, finalmente si trasferiscono a Gordon Square 46, in quella che sarebbe diventata la sede del Vecchio Bloomsbury. Il posto più bello, eccitante e romantico del mondo, dove sparisce George e con lui le convenzioni e la sopraffazione e persino un modo di scrivere più convenzionale. Virginia sradica tutto e in quello spazio vuoto, in quella stanza tutta per sé, rifonda la letteratura e l’idea del mondo. «Vecchio Bloomsbury» è un racconto di felicità inventiva geniale oltre che spregiudicato. «D’improvviso si aperse la porta e sulla soglia comparve l’allampanata sinistra figura del signor Lytton Strachey. Puntò il dito su una macchia dell’abito bianco di Vanessa. Sperma? domandò. Davvero uno lo può dire? Pensai e scoppiamo tutti a ridere».
Matrimonio, sentimenti, identità tutto si può dire da questo momento in poi. E tutto si attraversa, stracciando quell’ovatta del non-essere che era la materia triste in cui languiva la sua adolescenza. «Forse è dunque la capacità di ricevere scosse che fa di me una scrittrice», scrive.