Corriere della Sera, 1 febbraio 2020
Parla Giulia Ligresti
Solo un paio di anni fa erano quattro sedie, oggi è una mostra personale, ricca e articolata, in una delle gallerie d’arte contemporanea tra le più influenti a Milano. Giulia Ligresti e la sua Love è oggi una bella storia da raccontare (e vedere) negli spazi del gallerista e collezionista Glauco Cavaciuti in via Vicenzo Monti. Alle seggiole si sono aggiunte panche, consolle, tavolini, troni e oggetti: in ferro e bronzo e ottone e alluminio. Dettagli in velluto. Tutto fatto a mano, in Italia. Pezzi unici: come l’amore. Mai uguale. «Love è il fil rouge che ha sempre percorso la mia vita. Un mantra di qualsiasi situazione che ho vissuto», racconta l’imprenditrice-artista.
«Era un sogno nel cassetto al quale ho dedicato anima e corpo. Volevo qualcosa che durasse nel tempo, che entrasse nella vita delle persone per restarci. Come una semplice sedia che può anche seguirti tutta la vita, casa dopo casa, città dopo città, emozionandoti come nell’attimo esatto in cui l’hai scelta per far parte di te. Un ricordo, un momento, un pezzo di puzzle che lì deve stare e in nessun altro luogo». Messaggio, chiaro, senza bisogno di interpretazione. Love, in tanti ci hanno creduto, prima di lei: «Scontato forse, ma spesso, oggi, dimenticato. Mi sono guardata attorno, a casa mia, e ho capito che tutto quello che mi circondava raccontava qualcosa di me, della mia famiglia, dei nostri sentimenti. Amore, appunto, tanto. Perché non scriverlo, allora? E ho cominciato. All’inizio timidamente per me, poi le prime esposizioni durante la settimana del designer».
Sentimenti positivi, dopo tante vicissitudini: dal carcere sino all’assoluzione definitiva dalle accuse legate al caso Fonsai, l’azienda che era stata del padre, l’ingegnere Salvatore Ligresti: «Non sono mai stata una persona vendicativa. La rabbia non mi è mai appartenuta e con questo mio modo di essere sono riuscita superare delle sfide importanti». Importanti, dice. Non terribili o impossibili o difficili o ingiuste. Non c’è traccia in questa donna di voglia di rivalsa. Il frutto di un lavoro sul vissuto, di un controllo sulle reazione? «Credo si nasca così. Non ho dovuto fare alcun lavoro. Sono cresciuta sempre in un contesto di affetto, immenso. Ho cercato di dare amore alle persone che mi sono vicine, ai miei figli, ai miei amici». Il futuro? «Andare all’estero con la mostra». Progetti per rendere i pezzi più commerciali (una sedia mediamente costa sui 2.700 euro, la consolle 7 mila, i tavolini 950 euro)? «Ci ho riflettuto e ho deciso che no, sono oggetti preziosi, unici, come lo è l’amore. Non c’è ragione di industrializzarli». Significa che c’è una Giulia Ligresti che dipinge e piega i metalli? «Assolutamente sì. M’imbratto e mi taglio le mani pur di ottenere quello che ho nella mente e nel cuore». E quel «fuck» in alcuni pezzi? «Lo chiamano odio, a me piace pensarlo come momento costruttivo di un amore vero. Fatto di tensioni. E di riavvicinamenti».
Da aprile (quando fu assolta) ad oggi Giulia ha promesso e fatto: andare avanti senza voltarsi indietro. Questa collezione e poi i suoi bambini, in India e in Siria con l’onlus Sport e resilienza. E il sostegno alle donne in carcere? «Fra poco saremo pronte per raccontare il progetto al quale stiamo lavorando con una giovane fotografa». Nessuna scommessa, però. O rivalsa, appunto. Ma una dedica, questo si. «A mio papà che sarebbe stato orgoglioso di me e del fatto che fossi qui a Milano, la città per la quale ha fatto tanto e che ora, ovunque parla di lui, dei suoi sogni. Vedo in ogni progetto che stanno cambiando questa città la sua visione. Ed è bellissimo». E la firma? «G.L». Giulia Ligresti. Grande Love.