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 2020  gennaio 24 Venerdì calendario

Intervista a Gabriele Muccino su "Gli anni più belli"

ROMA. C’era una volta un mondo senza smartphone. Un mondo di attese e patimenti: "Non ha ancora telefonato" o, peggio: "Ha telefonato ma io non ero a casa". Un mondo in cui se non ti guardavi in faccia, se non ti incontravi, le emozioni non esistevano. C’era una volta un mondo senza treni ad alta velocità, un mondo in cui andare da Roma a Napoli era un viaggio infinito, una fermata sgangherata dopo l’altra. C’era una volta un mondo senza Spotify, un mondo in cui la musica era a 33 e 45 giri. Era il mondo di un attimo fa, di quando chi oggi ha 50 anni era adolescente. Comincia da qui, da alcune istantanee della sua giovinezza, il nuovo film di Gabriele Muccino, nostalgicamente intitolato Gli anni più belli, in sala dal 13 febbraio.

Il regista, forte di grandi successi, in particolare l’ultimo, A casa tutti bene (10 milioni d’incasso), ha scritto un’altra storia corale, scelto un cast di vecchie conoscenze (Pierfrancesco Favino, Claudio Santamaria, Nicoletta Romanoff) e new entry di pregio (Micaela Ramazzotti e Kim Rossi Stuart). Gli anni più belli è un excursus dagli anni Ottanta a oggi, è la storia di tre amici e una ragazza, si va dal riflusso al Movimento 5 Stelle, dal Tempo delle mele (il film, ma anche il periodo della vita) alla riscoperta dei prodotti a chilometro zero. I personaggi sono interpretati da attori più giovani (e somigliantissimi) nella prima parte, poi dai "titolari" aiutati dalla tecnologia de-aging, un po’ come Al Pacino e Robert De Niro in The Irishman.

Liberamente ispirato ad almeno un paio di classici del cinema italiano, Una vita difficile di Dino Risi e soprattutto C’eravamo tanto amati di Ettore Scola, il film non è un remake. "Semmai è un omaggio innamorato, non ho rubato nemmeno una battuta" dice il regista. In realtà, in principio, avrebbe potuto essere davvero un remake. Una ventina d’anni fa, Gabriele Muccino avrebbe dovuto fare un film con la Miramax di Harvey Weinstein e, a un certo punto gli parlò del film di Scola. L’idea iniziale era un remake americano, con attori americani, con la guerra del Vietnam al posto della Resistenza, poi gli anni Settanta negli Stati Uniti al posto dei Cinquanta in Italia, mantenendo la stessa struttura dell’originale. Weinstein non conosceva il film ma lo vide e gli piacque moltissimo. Portò Muccino a bordo di un aereo privato da Roma a Parigi per parlare della sceneggiatura. Ma presto si capì che il remake era impossibile per mille motivi, non ultimo il rapporto con le ideologie e la politica, così vitale per i coetanei di Scola ma impossibile da applicare alla generazione di Gabriele Muccino.

Com’è la sua generazione?
"Io sono nato nel ’67. Noi siamo cresciuti in un’epoca di grande prosperità, fratelli minori di chi aveva ucciso la musica pop, considerata nemica dell’ideologia. Noi la politica l’abbiamo subita, non ne sapevamo niente e pensavamo di essere inferiori rispetto ai "grandi". Abbiamo avuto un senso di frustrazione che ci ha fatto vivere all’ombra di molti dubbi. I personaggi del film sono così: per esempio quello interpretato da Kim Rossi Stuart racconta la storia di molti insegnanti che tutti abbiamo conosciuto, quelli che hanno un’idea nobile del loro mestiere ma sono stati condannati al precariato per anni".

Vent’anni fa L’ultimo bacio fu il film dei trentenni del momento. E anche il primo film italiano dove i telefonini erano protagonisti.
"E quanto me lo fecero notare! C’erano recensioni che lamentavano l’eccesso di telefonini in scena. Eppure già si intuiva quanto la tecnologia avrebbe influenzato il mondo delle relazioni tra le persone e le loro vite segrete. Oggi i nuovi media hanno creato un universo parallelo gelido, senza contatto fisico, dove tutto è equivocabile".

Non le piace?
"Non voglio fare il sociologo o il futurologo ma credo che, tra poco, ci sarà un rigetto: i movimenti di piazza, le manifestazioni per l’ambiente e anche le Sardine segnano il desiderio di ritrovare quel calore che si prova stando vicini, anche fisicamente".

Il film copre 40 anni di vita italiana: cosa segna i personaggi?
"Il tempo e gli imprevisti. Il primo ti trasforma, ti allontana e ti avvicina, anche quando non vuoi. Gli imprevisti ti costringono a delle scelte e ti definiscono".

Qual è stato l’imprevisto più imprevisto della sua vita?
"L’avventura americana. Proprio non me l’aspettavo, l’ho vissuta intensamente, mi ha dato molto ma adesso non mi manca".

Davvero? Eppure: i film con i grandi studios, con star come Will Smith... Hollywood non è il sogno di tutti?
"Non sono mai stato bene come adesso. Certo, se non avessi visto l’Italia da lontano non avrei la chiarezza nel raccontare una storia come quella che c’è in questo film. Quando sei via ti mancano gli amici, il convivio, il nostro modo di comunicare diretto. Là è tutto un business, hai sempre paura di dire quello che pensi perché poi tremi all’idea che non ti facciano più lavorare. Tornare è stato salvifico per la mia anima e per il mio mestiere".

Tra il periodo in America e il suo rientro in Italia, lei ha affrontato un divorzio molto difficile dalla madre del suo secondo figlio. Nel film, il personaggio interpretato da Santamaria vive una storia simile.
"Sì, è molto autobiografico, un gioco di specchi palese, ci ho messo tutta la verità su questa vicenda per me devastante. Per anni, vedere mio figlio Ilan, che viveva in un’altra città, è stata un’impresa, mi è capitato di arrivare per un appuntamento e non riuscire a passarci neanche un minuto insieme, di telefonare e non ricevere risposta. Ho sentito il bisogno di scrivere di questa esperienza per me tanto dolorosa e la cosa incredibile è che oggi il rapporto con Ilan, che adesso ha 16 anni, è completamente recuperato. L’ho scritto in sceneggiatura e dopo è successo davvero".

Al punto che Ilan è nel film, insieme alla sua figlia più piccola, Penelope, 10 anni. Un film in famiglia. Da grande faranno gli attori?
"Per ora Ilan vuol fare il veterinario, Penelope l’ho presa perché non trovavo l’attrice bambina giusta per la parte: fa la figlia di Favino. All’inizio non voleva perché la scena è un po’ triste. Deve piangere. Ma l’ho convinta (ride, divertito, ndr.)".

È diventato un patriarca sereno?
"Credo di essermi liberato dalla rabbia nei confronti della famiglia (si è anche conclusa la querelle giudiziaria con il fratello Silvio, ndr.), da un certo tipo di nevrosi emotiva. A casa tutti bene era ancora attraversato dal rancore, questo mostra come gli anni ci rendano più lucidi e forse anche più morbidi su tante cose".

Tra gli interpreti c’è la cantante Emma Marrone.
"Ha una faccia pazzesca, da cinema. Gliel’ho detto quando l’ho conosciuta e le ho promesso che l’avrei chiamata appena avessi avuto una parte per lei. Lei, probabilmente, pensava che fosse una di quelle cose che si dicono. Invece l’ho chiamata. E non per cantare, ma solo per recitare davvero".

Gemma, il personaggio di Micaela Ramazzotti, la ragazza contesa, somiglia a qualcuno che ha fatto parte della sua vita?
"Esiste veramente una Gemma. Ma non ci siamo mai nemmeno baciati. Era la più bella, la più intelligente e la più irraggiungibile tra le mie compagne di liceo. La sento ancora e l’ho invitata alla prima del film".

Sente anche altri compagni di liceo?
"Alcuni e mi fa molto piacere. Sono gli unici che ti parlano ancora come ti parlavano allora, nulla è filtrato da quello che siamo diventati".