la Repubblica, 31 gennaio 2020
Un whatsapp da Jung
È quasi la fine dell’anno. Whatsapp mi avvisa che è arrivato un messaggio. Lo guarderò dopo. Un minuto dopo un altro bling. Butto l’occhio e vedo le notifiche di due messaggi con fotografia. Uno è di mia sorella, l’altro di una cara amica. Le due, che si conoscono appena, stanno viaggiando in continenti diversi. Apro le foto e penso: «Jung sarebbe contento». Sì, perché le due foto sono quasi identiche: ritratto di donna con falco. Sorella e amica, nello stesso momento e in due paesi diversi, si erano fermate al chiosco di un falconiere che, per fare qualche soldo, offre il rapace ai turisti per un avventuroso scatto. Il piccolo episodio cattura la mia curiosità per tre ragioni: la rarità del soggetto (un falco, mica un gattino); la contemporaneità dell’evento; l’avvento di un concetto, la sincronicità, curioso ma privo di evidenza empirica, a cui ho sempre dato poco peso. Jung, invece, gliene diede molto, al punto da dedicargli un saggio: La sincronicità come principio di nessi acausali.
Dove formula ipotesi su certi fenomeni di correlazione psicofisica «inspiegabili e inaccettabili dalla scienza causalistica e purtuttavia costantemente osservabili». In poche parole: eventi paralleli, nessuna influenza reciproca, coincidenza temporale, risonanza interiore. Il rapporto tra sincronicità e tracce mnestiche sovraindividuali, discontinuità quantiche, relatività delle categorie di spazio e tempo e molte altre diavolerie furono anche oggetto di una fitta corrispondenza tra Jung e Pauli, fisico austriaco e premio Nobel. Non ho propensioni magiche, astrologiche o divinatorie, la new age mi indispone. Anche se non sono un razionalista di ferro e ho toccato con mano i limiti delle Dea Ragione, continuo a sentirmi nipote dell’illuminismo e propendo più per la casualità che per l’acausalità. Allora mi è venuto in mente unquarto modo di guardare all’episodio dei falchi: la connessione. Senza i nostri smartphone, senza la rete invisibile che lega, spesso opprimendole, le nostre vite, non avrei partecipato, con sorella e amica, alla coincidentia falcorum. Tra le tante immagini che ci scambiamo molte sono inutili e moltissime, soprattutto se esibiscono il privato su Facebook, sono perniciose. A volte però lo scambio immaginale è nutriente condivisione di un mondo interno che trova coincidenza con l’aura degli oggetti che abitano il mondo.
Che siano animali, quadri o paesaggi, le immagini portano con sé memorie, affetti e pensieri. Sorella e amica mi hanno mandato i loro falchi per condividere quel momento psichico, la forza di un rapace archetipico che, come una delle due mi scrive,«emanava una potenza fuori dal tempo». «Ti sento vicino», mi scrive l’altra. Capita così di ritagliare, in una rete carica di scorie e banalità narcisistiche, percorsi imprevisti di coincidenze e rivelazioni. Allora facciamo come l’evangelista Matteo con la «rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci»: quando è piena «i pescatori si siedono, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via quelli cattivi». Hillman paragonava Internet a Ermes- Mercurio, il messaggero divino che mette in contatto gli eventi e ci unisce ovunque siamo. Senza nascondere la sua preoccupazione per quella patologia dell’iperconnessione che chiamava «intossicazione ermetica», sapeva che Ermes «oggi è dovunque e vola per l’etere». Tra noi e il mondo c’è una continuità invisibile che a volte può essere colta in oggetti la cui aura ci raggiunge e risuona in noi: «l’apparizione unica di una lontananza per quanto possa essere vicina», direbbe Benjamin. Ci aiuta trovare, con il poeta Wallace Stevens, «la via attraverso il mondo», ben più difficile di quella «al di là del mondo». Nessuna confusione dunque tra psicologia e spiritualismo, ma capacità di accorgersi del paesaggio e delle sue connessioni, proprio come accade quando raccontiamo un sogno. C’è qualcosa della vecchia idea platonica dell’anima mundi che è bene rispolverare in tempi di disastro ecologico. Forse anche dell’idea moderna di mente estesa («dove finisce la mia mente e dove inizia il resto del mondo?» si domandano i filosofi analitici Clark e Chalmers in un famoso articolo sulla nostra interazione cognitiva con l’ambiente). Senza cadere in animismi oscuri e anzi più vicini a una psicologia consapevole, potremmo leggere l’anima del mondo come una possibilità di connessione offerta da un oggetto o un evento esterni. Il mondo infuso d’anima è un mondo animato da noi; l’anima mundi è ciò che fa del mondo sensibile un oggetto della nostra immaginazione. Ciò che rende gli oggetti immagini psichiche.
Tutto questo non per fare di noi degli sciamani, ma degli umani più consapevoli dei legami profondi e più refrattari a quelli superficiali, più modesti e rispettosi dell’incomprensibile animato, attenti ai significati impliciti e al firmamento dei nostri multipli sé. Attenti inevitabilmente anche ai doni di Ermes (tra cui l’ermeneutica), alle sue caviglie alate, ai suoi enigmi, sintomi e furti (è pur sempre il dio della rete). In una parola, più attenti all’impercettibile del quotidiano. E dunque più poetici, come la nostra Szymborska: «Ieri mi sono comportata male nel cosmo./ Ho passato tutto il giorno senza fare domande,/senza stupirmi di niente (…) Il savoir-vivre cosmico,/benché taccia sul nostro conto,/tuttavia esige qualcosa da noi:/un po’ di attenzione, qualche frase di Pascal/ e una partecipazione stupita a questo gioco con regole ignote».