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 2020  gennaio 31 Venerdì calendario

Le auto elettriche riducono i posti di lavoro

Difficile essere ambientalisti se l’auto pulita riduce del 30 per cento i posti di lavoro. Secondo i calcoli di Morgan Stanley questo significa perdere più di 3 milioni di tute blu sugli 11 milioni di addetti a livello mondiale. Eppure c’è chi prova a trovare una via d’uscita. Le tute verdi, i metalmeccanici che dialogano con gli ambientalisti, si sono materializzati ieri in un’aula del Politecnico di Torino. Una giornata di seminario con esponenti storici dell’ambientalismo italiano, da Anna Donati a Guido Viale, esperti dell’automotive (da Giuseppe Berta al direttore di Automotive News Europa, Luca Ciferri) a politici locali. Gornata organizzata dai metalmeccanici della Cgil e dal gruppo “Sbilanciamoci!” con la partecipazione della segretaria Fiom Francesca Re David.
I dati sono impressionanti. Secondo gli analisti il passaggio dal tradizionale motore a scoppio a quello elettrico potrebbe avere conseguenze pesantissime sull’occupazione. Per costruire un motore tradizionale sono necessarie circa 2.000 parti in movimento. Per quello elettrico ne bastano 20. Uno squilibrio che si riduce solo in parte se si calcolano tutti i pezzi del motore: 1.200 per quello tradizionale, 200 per quello alimentato dalle batterie. Le differenze si traducono in un calo drastico dei posti di lavoro. Se si considera l’intera filiera, per ogni 100 addetti alla produzione dei motori a scoppio ne bastano 25 per quello elettrico. Un taglio di tre quarti della forza lavoro.
«Non siamo affezionati al modello del Novecento – dice Re David agli ambientalisti – ma come metalmeccanici non possiamo sentirci in colpa perché produciamo automobili. Chi inquina sono le imprese, non i lavoratori». La replica toccherà oggi ad Alberto Dal Poz, presidente dell’Amma (l’associazione degli imprenditori dell’automotive).
Nella discussione tre possibili vie d’uscita dalla crisi legata all’elettrico. La prima l’ha ricordata Anna Donati: «La Cassa depositi e prestiti ha un piano da 110 mila posti di lavoro in tre anni per incentivare il trasporto pubblico», vera alternativa a quello privato, con qualsiasi motore. Una seconda possibilità l’ha sottolienata Silvia Bodoardo del Politecnico di Torino: «L’Italia ha le carte in regola per costruire nella Penisola gigafactory di celle per le batterie delle nuove automobili. La prima entrerà in funzione nelle prossime settimane vicino a Caserta. È una filiera che può incrementare l’occupazione in modo significativo». La terza strada è quella indicata dal rettore del Politecnico Guido Saracco: «In Giappone ci si sta interrogando sul passaggio diretto all’idrogeno, saltando, di fatto, la fase delle batterie. Perché l’idrogeno è già facilmente reperibile e non è vincolato a giacimenti in Paesi con un’incerta situazione politica. Lo svantaggio è nella rete di distribuzione, già pronta per l’elettricità, e nello stoccaggio a bordo dei veicoli».
«La prospettiva – dice Giorgio Airaudo della Fiom – è quella di provare a unire le forze tra ambientalisti, imprese e lavoratori trasformando l’industria dell’auto in quella della mobilità sostenibile. Uno dei passaggi importanti tocca ora al Mise che deve contribuire per la sua parte al finanziamento dei progetti. C’è un piano europeo da 3,2 miliardi, infatti; soldi che possono essere attivati senza incappare nelle sanzioni contro gli aiuti di Stato. Ma il governo è intenzionato a farlo? L’occupazione nella filiera elettrica potrebbe diventare infatti un’alternativa a quella che si perde nei motori tradizionali. Altrimenti si rischia di fare solo un’importante opera di assistenza, com’è accaduto ieri al ministero con la proroga di un anno della cassa integrazione ai dipendenti della Mahle, un’azienda torinese che produce pistoni.