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 2020  gennaio 31 Venerdì calendario

Successo in Iran della vendita di bandiere Usa

Nell’economia iraniana messa in ginocchio dalle sanzioni imposte da Donald Trump c’è un settore che tira, anzi è in pieno boom. Ed è quello delle bandiere americane. La domande è rimasta sempre forte, ed è esplosa dopo l’uccisione del generale dei Pasdaran Qassem Soleimani. Gran parte della produzione è concentrata in una fabbrica a Khomein, nei sobborghi meridionali di Teheran. Nei periodi di picco ha una capacità di 2000 bandiere statunitensi e israeliane al mese, con un consumo di 140 mila metri quadrati di tessuto all’anno. Altri stabilimenti minori contribuiscono a soddisfare le richieste, che includono anche le Union Jack, il vessillo britannico. Bandiere a stelle strisce e israeliane vengono regolarmente dipinte agli ingressi di scuole, università, edifici pubblici, per essere calpestate. Quelle in stoffa vengono invece bruciate alle manifestazioni pro-regime, che hanno assunto dimensioni colossali dopo il raid che ha eliminato Soleimani lo scorso 3 gennaio.
Il disprezzo per i simboli del «Grande e Piccolo Satana» sono un obbligo. Anche se, dopo l’abbattimento del Boeing ucraino da parte dei Pasdaran, l’8 gennaio, molti studenti si sono rifiutati di passarci di sopra e le hanno aggirate.
Il momento favorevole
Il momento resta comunque favorevole al business, come ha sottolineato alla Reuters il proprietario della fabbrica Diba Parcham, Ghasem Ghanjani: «Non abbiamo problemi con il popolo americano o britannico – ha precisato – ma con i loro leader, con le politiche sbagliate che portano avanti. La gente in America e Israele sa che non ce l’abbiamo con loro quando bruciamo le bandiere, è soltanto un modo per protestare».
Un pensiero condiviso dai suoi dipendenti: «Bruciare bandiere non è certo offensivo e vigliacco come l’assassinio del generale Soleimani».
La Repubblica islamica è nata nel segno della sfida all’America, il grande alleato dello scià, e la rivoluzione è stata segnata dall’assalto all’ambasciata Usa, con 52 diplomatici e impiegati tenuti in ostaggio per un anno. Gli oltranzisti alimentano di continuo l’ostilità e hanno cercato di sfruttare al massimo l’indignazione per l’uccisione di Soleimani. Ma devono fronteggiare un malcontento sempre più forte, specie fra gli studenti. «Il nostro nemico non è l’America – cantavano nelle manifestazioni dopo l’abbattimento del Boeing – il nostro nemico è qui», cioè è il regime degli ayatollah.