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 2020  gennaio 30 Giovedì calendario

Maurizio Pollini torna alle sonate finali di Beethoven

«Il desiderio di inciderle di nuovo nasce dall’idea che forse fra qualche anno non mi sarebbe più possibile. Nessuno mi chiederebbe di registrarle ancora. Questa sarà la mia ultima esecuzione in disco».
Fra qualche giorno uscirà il nuovo disco di Maurizio Pollini, dedicato alle tre ultime Sonate per pianoforte di Beethoven, nell’anno in cui nel mondo si celebrano i 250 anni dalla nascita del compositore. Il grande pianista, che il 5 gennaio ha compiuto 78 anni, concede in anteprima, nella sua casa di Milano, questa intervista a La Stampa.
«Mi ha fatto decidere la lunghezza del tempo che mi separa dalle mie prime esecuzioni, nate ormai troppi anni fa per l’entusiasmo che provavo verso questa musica e per l’audacia folle di un giovane che cominciava le sue esperienze. Quelle registrazioni sono là da un tempo troppo lungo, ho voluto rifarle con le idee di oggi».
Da quanto ho potuto ascoltare, grazie alla cortesia della Deutsche Grammophon, lei ha accentuato i contrasti della scrittura di Beethoven, raggiungendo in alcuni momenti una tensione estrema, esplosiva, incontenibile, nuova nella sua storia di interprete.
«Sì. C’è una riflessione su queste opere che mi accompagna da decenni, che rimane ancora, che non è né mai sarà accantonata. Nell’ultimo periodo, contrariamente a quanto spesso si pensa, Beethoven non ha smorzato i toni. Assolutamente no. Ho cercato di marcare questi toni. Dal punto di vista della forma, Beethoven l’ha sempre piegata elle sue esigenze. Una libertà che diventa ancora più marcata in queste opere».
Nelle tre sonate - opera 109, 110 e 111 – emergono delle estese isole di canto al quale Beethoven si abbandona. È qui, è nelle sue opere per pianoforte, che dobbiamo cercare la sua vocalità più intima, più nuda?
«È un canto completamente diverso in ognuna dalle tre, e il cantabile della 111 non assomiglia a nessun’altra sua composizione. E’ vero che spesso Beethoven piega la vocalità alle sue esigenze espressive, senza ritegno: non si abbandona alla vocalità, ma si serve della vocalità per arrivare alla sua espressività anche con una certa indifferenza verso le necessità di chi canta. Ma non qui. Anche il suo frequente ricorso al trillo ha questo scopo: prolungare al massimo il canto».
L’opera 111 è composta soltanto da due movimenti, non da tre o quattro come era consuetudine. Eppure, non possiamo dire che sia incompiuta. Qual è la sua specifica bellezza? 
«I due movimenti sono agli antipodi uno dall’altro e comunque formano una meravigliosa unità. Il momento in cui l’interprete finisce il primo tempo e attacca il secondo è qualcosa di mai osato in tutta la sua produzione».
Come si restituisce, suonando, il senso di inaudito che si avverte in questo passaggio?
«Sottolineando l’enorme distanza fra la drammaticità estrema del primo movimento e il momento meraviglioso oltre ogni immaginazione dell’Arietta, con le sue variazioni. Sono i contrasti estremi della vita. Penso che eguagli la potenza delle sue grandi opere, come la Quinta Sinfonia o il Coriolano. Opere proiettate verso il futuro: la sua immaginazione creativa va oltre i limiti tecnici dei pianoforti del suo tempo, di cui pure doveva tenere conto. Beethoven diceva: "Il nuovo viene da sé, senza la volontà precisa dell’autore"».
Nell’ Arietta dell’opera 111 appaiono improvvisi – come una scheggia, un frammento – degli accordi sincopati che fanno pensare al jazz...
«No! Non ho mai pensato a quegli accordi in termini jazz. È un passaggio di straordinaria grandiosità, un momento di grande gioia. Breve».
Parlando della Sonata opera 109, Beethoven scrive: «Ho voluto esprimere in musica il sentimento che unisce gli uomini» .
«Il manoscritto di questa Sonata rivela, più di tutti gli altri, una scrittura tormentata. Mi sono sempre domandato perché. Forse perché il sentimento che si prefiggeva di raggiungere, è la cosa più azzardata e difficile da esprimere in musica».
Non solo in musica. Il senso etico della sua produzione rimane forte anche nelle ultime opere?
«È presente in tutto Beethoven, sempre».
La condizione di progressiva, e infine totale sordità, di isolamento dai suoni e dai rumori del mondo nella quale Beethoven è vissuto dai 30 anni fino alla morte, a 57, ha influito sulla sua libertà immaginativa?
«Ha saputo sfruttare anche una privazione, subita con grande dolore. La sordità gli ha aperto delle possibilità poetiche straordinarie. Ha trasformato una disabilità, una menomazione, in una risorsa. Ricordo che Claudio Abbado, parlando del suo tumore, diceva che non era stato soltanto una maledizione; per alcuni aspetti, anzi, una benedizione».
Maestro, lei non ha il telefonino. In questa casa non vedo computer e non c’è connessione internet. Non ne sente il bisogno?
«Talvolta nostro figlio che usa il telefonino e il computer mi cerca delle informazioni e mi fa ascoltare da questi apparecchi della musica di cui sono curioso. Ma si sente così male!».