la Repubblica, 30 gennaio 2020
Così Mussolini tentò di fermare papa Pacelli
Da una parte Galeazzo Ciano, il genero del Duce, ministro degli Esteri del governo fascista. Dall’altra Guido Manacorda, germanista ricevuto e ammirato da Hitler, uomo di collegamento per Mussolini nel proposito di riallacciare i rapporti (sfilacciatisi) col Führer nel 1934. Fervente cattolico, cercò con incontri e colloqui riservati di influenzare la Curia romana e in particolare i cardinali del Sacro Collegio. Sono i due fedelissimi del Duce che più di altri lavorarono per lui nel tentativo, non riuscito, di far sì che il conclave del 1939 non eleggesse il cardinale Eugenio Pacelli, giudicato tendente «verso mentalità democratica», un pericolo per la dittatura e per i suoi rapporti con la Germania.
La rivelazione, del tutto inedita, è messa nero su bianco a poche settimane dall’apertura degli archivi relativi al pontificato di Pio XII (1939-1958), il vescovo di Roma noto anche per i silenzi tenuti sulla Shoah e gli ebrei. Del silenzio molto diranno le carte che ancora per pochi giorni restano secretate. Della sua elezione, invece, dice tutto un poderoso volume, che Repubblica è in grado di anticipare, pubblicato proprio dall’Archivio che fino a pochi mesi fa si chiamava Segreto – con un Motu Proprio dello scorso ottobre Francesco ha cambiato il nome in Archivio Apostolico Vaticano – grazie alla penna di Giovanni Coco. È intitolato Il labirinto romano e, carte inedite alla mano, dà l’idea di quel ginepraio a tratti inestricabile che furono le relazioni Chiesa-Stato sotto Pio XI, il suo successore Pio XII e Benito Mussolini.
Sebbene Coco, senza indulgere in vane apologie, chiarisca il senso della pretesa «inclinazione democratica» di Pacelli, che piuttosto era un fantasma che si agitava nelle stanze del regime, l’iniziale simpatia goduta dal cardinale si era consumata verso la fine del pontificato di Pio XI, della cui ultima intransigenza – a torto o a ragione – il porporato era considerato l’ispiratore o il complice. Si è scritto da più parti di una iniziale soddisfazione di Mussolini per l’elezione di Pacelli, ma le cose non stavano proprio così. Il governo fascista si mosse per scongiurare l’elezione al soglio di Pietro di un papa giudicato «troppo politico», mentre si preferiva un papa «apolitico», una soluzione più morbida che avrebbe permesso al regime, scrive Coco, «di impostare ex novo e in maniera più vantaggiosa i rapporti con la Santa Sede». Dice non a caso il gesuita padre Peter Gumpel, postulatore della causa di beatificazione di Pio XII: «Un papa italiano come Pacelli, inevitabilmente, avrebbe creato problemi a Mussolini nel suo rapporto con Hitler. L’elezione doveva essere scongiurata ». Il primo tentativo di influenzare i giochi fu fatto l’11 febbraio del 1939, il giorno dopo la morte di papa Ratti. Sul Regime Fascista venne pubblicato un lungo articolo che indicava i nomi dei presunti papabili. Il quotidiano fascista indicò fra i favoriti Pacelli, Della Costa, Marmaggi e Massimi. Per la Santa Sede fu un chiara manovra per influenzare l’elezione. Il Regime Fascista, infatti, mostrava preoccupazione per la possibile elezione di Pacelli perché «troppo coinvolto nelle scelte del suo predecessore per prenderne le distanze».
Il 12 febbraio Mussolini lasciò Ciano libero di continuare con l’azione di disturbo. Sul Telegrafo di Livorno, infatti, venne scritto che Pacelli «avrà, ai primi scrutini, delle votazioni assai lusinghiere, ma che non raggiungeranno i due terzi necessari; e che queste votazioni saranno, più che altro, un riconoscimento dei suoi meriti, e caleranno gradatamente». Il Telegrafo quindi fece i suoi pronostici: i veri papabili, secondo le veline suggerite da Ciano, erano l’«eminentissimo Dalla Costa e l’eminentissimo Massimi». Insomma, il candidato «politico», troppo schierato contro il regime, sarebbe stato «surclassato» da un porporato «apolitico», «spirituale», «più conciliante». Il 13 febbraio la Polizia politica intercettò una conversazione telefonica di Paul Gentizon, corrispondente del Temps, con il suo redattore a Parigi: «Il governo fascista tiene che sul trono di San Pietro segga qualche Pastor angelicus, il quale a mani giunte, guardando più verso il cielo che verso la terra, si preoccupi delle anime e sia severo nella disciplina».
In questo senso il profilo perfetto per il regime fascista era quello del cardinale Massimi. «Giurista di vera umiltà e santità», diceva di lui un’informativa della Polizia politica. E ancora: «Uno dei migliori sacerdoti del clero romano». La sua candidatura «starebbe assai bene perché epurerebbe il Vaticano da tutte le scorie ambrosiane, mettendo fine a tutte le mangerie che da anni si ripetono nell’ambiente».
Manacorda si precipitò a Roma nei giorni del conclave, girando nella Curia romana col pretesto di una collaborazione con il Corriere della Sera. Entrava, insomma, come studioso desideroso di scrivere articoli e non come “spia” del regime. Con alcuni porporati fu prudente, con altri esplicito: al cardinale Baudrillart disse di seguire un consiglio di «modération», ovvero eleggere il cardinale Massimi, il cui nome era circolato negli ambienti di curia come candidatura «soutenue par Mussolini».
Per guadagnare consensi alla candidatura di Massimi, Manacorda si rivolse ai delusi del precedente pontificato, i tanti oppositori che, come la storia odierna dimostra, non mancano mai Oltretevere. Fece visita a Gomá y Tomás, primate di Spagna, che come rappresentante ufficioso del Vaticano presso il governo di Burgos spesso si era trovato in una posizione imbarazzante davanti al generale Franco. Pacelli non lo aiutò come sperava. Per questo Manacorda provò a lavorare sul suo rancore.
Così fece con altri. La sua opera di convincimento non produsse l’effetto sperato. La candidatura di Mussolini, nei suoi pensieri l’alternativa di un papa religioso e gradito al fascismo, non decollò mai.