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 2020  gennaio 30 Giovedì calendario

Quelli morti insieme a Kobe Bryant

Quando Kobe Bryant e la figlia Gianna sono morti domenica nello schianto dell’elicottero, con loro c’erano altre sette persone, le cui storie cominciano a prendere forma, come i volti disegnati sui murales, accanto a quelli della Vergine di Guadalupe, Martin Luther King e Frida Kahlo, da Figueroa Street a Pico Boulevard. Quelle di John, Keri, Alyssa, Ara, Christina, Sarah e Payton erano unite da tre fili luminosi che le legavano a Kobe e alla città degli angeli: amavano il basket, erano gentili e volevano lasciare un’eredità nelle vite degli altri. Nel momento in cui la notizia dell’incidente aveva fatto il giro del mondo tutti sapevamo esattamente chi fossero Kobe e la figlia, nessuno sapeva niente degli altri. Il pilota dell’elicottero, poi, Ara Zobayan, per ventiquatt’ore non aveva avuto neanche un nome, ma in compenso già tutte le colpe. La navigazione a vista, la velocità eccessiva, l’inesperienza. Aveva più di ottomila ore di volo.
Ricordare la loro storia è anche un modo di riscrivere quella di Los Angeles, sepolta dai luoghi comuni: la comunità di plastica, quella che misura il tempo in traffico, dei settantadue borghi in cerca di una città, dove l’unica cosa bella sono i corsi di yoga. Vero, tutto a LA scorre più velocemente, ma anche la generosità, la gentilezza. E siccome a Los Angeles la bellezza è illusione, e invecchiare è un crimine, chi può cerca di trasmettere qualcosa agli altri, lasciando il segno nelle giovani arance.
Gianna Bryant, Alyssa Altobelli e Payton Chester erano tre di queste arance: avevano 13 anni, erano compagne di squadra nella Mamba Sports Academy e domenica avrebbero giocato le finali di un torneo. Come Gianna, anche Alyssa era considerata una predestinata, così brava in difesa da aver ricevuto i complimenti dell’assistente coach dei Lakers, Phil Handy, e la menzione speciale di Kobe su Instagram. Il trio delle meraviglie era chiuso da Payton, quella «solare», che si allenava sotto gli occhi della madre, Sarah Chester, 45 anni, nel board di una scuola privata cattolica su cui tutti potevano contare, fosse un passaggio in auto, una pacca sulla spalla, un consiglio. Molto American way, certo, ma a Los Angeles, dove l’idea di successo non ti abbandona neanche quando sei in fila da Starbucks, è un latte quotidiano. Ognuno qui può passare come un attore bello e un po’ malconcio. John Altobelli, per esempio: 56 anni, di Chicago, figlio di un giocatore professionista di baseball di origine italiana, si era fermato alle categorie inferiori. Dopo il trasferimento in California, dal ’92 era diventato coach all’Orange Coast College, portandolo a quattro titoli statali e 700 vittorie. Grazie alla figlia Alyssa, era diventato amico di Kobe, con cui si fermava a parlare dopo ogni allenamento. “Alto”, così lo chiamavano tutti, aveva creato una fondazione per aiutare i giovani a ottenere una scholarship, una borsa di studio, al college e invitato Bryant a parlare ai ragazzi della Mamba mentality, la feroce volontà della vittoria. Voleva che i giovani avessero una possibilità. Come il pilota, Zobayan, 50 anni, brevetto dal 2001, definito esperto, affidabile, ottimo istruttore ma senza l’egocentrismo alla Tom Cruise. Zobayan era il pilota delle star e personale di Kobe. Nel 2013 era comparso in un reality in cui accompagnava i personaggi a sorvolare la città. «Wooow – aveva commentato una ragazza – mi sembra di sognare a vederla così». La luce di Los Angeles è diversa da tutte le altre: chiara, calda, dilagante. O c’è sole, o c’è tempo insolito. Domenica mattina, era molto insolito: nebbia fitta. Ogni tentativo di trovare un granello di colpa va lasciato agli investigatori, ma Bryant, così prudente da non prendere mai un elicottero assieme alla moglie, si fidava del suo pilota, lo aveva scelto per la calma, l’affidabilità e la gentilezza verso gli altri. Stesse qualità che lo avevano spinto a scegliere Christina Mauser, 38 anni, madre di tre figli e coach di basket in una scuola a Corona del Mar, come assistente alla Mamba Academy. La chiamavano “Mother Of Defense”, la Madre della Difesa, per come insegnava i movimenti alle ragazze. Tutti erano orgogliosi di lei. «Big Time, Baby», aveva scritto pochi giorni fa su Facebook il marito Matt, insegnante di spagnolo e cantante amatoriale con la band Matt Mauser & The Pete Jacobs Big Band. L’ultimo concerto era previsto proprio la sera della tragedia. Matt ora dice di «aver paura» a pensare come tirare avanti i tre figli. Cinque giorni prima aveva postato un video in cui, alle 7 di mattina, si era messo al pianoforte a suonare un pezzo, Mr. Sandman, con il ritornello gioioso bam bam bam bam, per svegliare i figli in vista della scuola. Domenica sera erano tutti e quattro davanti alla televisione, ammutoliti, a vedere scorrere i servizi sulla tragedia. A un certo punto la figlia più grande, di 11 anni, si è rivolta verso il padre e gli ha detto: «Però è importante sapere che tutti stanno soffrendo per noi».