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 2020  gennaio 30 Giovedì calendario

Il problema Npl

NEW YORK
Quando tutto appare calmo, forse è il momento in cui è meglio preoccuparsi e alzare la guardia. Per le banche americane in salute finanziaria e con il vento in poppa di un’economia tuttora solida, i campanelli d’allarme sono oggi una debole eco. Ma è proprio da quest’anno che entra in vigore un nuovo sistema contabile creato per prevenire il ripetersi degli eccessi del passato quando si tratta di “bad debt” e crisi. In campo scende un criterio di calcolo dei prestiti in sofferenza – ultimo capitolo di riforme post-crisi oggi spesso discusse più per decidere allentamenti che nuove strette – che intende rafforzare ulteriormente le loro riserve.
Per rispettare le nuove norme gli istituti – i grandi già adesso, i restanti nel 2023 – devono riconoscere perdite potenziali sulla base di un meccanismo concepito otto anni or sono all’ombra della sottovalutazione di rischi e fardelli tossici. Un sistema dal nome burocratico di Cecl, Current Expected Credit Losses, finalizzato dal Fasb nel 2016. E con una missione tutt’altro che di routine: è stato disegnato per gonfiare i fondi stanziati a fronte di prestiti in sofferenza sulla base di modelli sensibili a variabili macroeconomiche; senza aspettare l’emergere di sintomi conclamati di stress – come da passate normative. Nei fatti l’idea è basata sull’amplificare le possibili perdite nel credito – e quindi l’avvertimento al pubblico e ai mercati – tenendo conto della fase del ciclo economico. Alle banche è richiesto di tener conto subito delle perdite attese per la durata del prestito.
Il sistema deve però essere ancora sperimentato e non mancano polemiche e incertezze su accuratezza ed efficacia. Iniziali stime avevano ipotizzato che simili riserve per le prime quattro banche americane avrebbero totalizzato almeno 56 miliardi; i più recenti calcoli effettuati dagli istituti le hanno limitate a circa dieci miliardi. JP Morgan ha di recente riportato riserve Cecl di 4,3 miliardi, ai minimi della fascia attesa tra 4 e 6 miliardi, in gran parte legate a carte di credito. Complessivamente i fondi per coprire perdite sono lievitati del 30% a 18,6 miliardi.
È un gioco di cifre, hanno indicato gli analisti, che solleva preoccupazioni. Può dipendere certo dai riflessi di particolari momenti congiunturali. Come però anche dalla possibilità delle banche stesse di far ricorso a ipotesi e variabili diverse tra loro. Una discrezione nei modelli interni che potrebbe portare i vertici dei singoli istituti a stime difficilmente paragonabili. E ad errori in direzioni opposte, in senso di eccessiva prudenza o aggressività, entrambi potenzialmente dannose. Le banche possono definire un “periodo ragionevole” nel considerare le previsioni, due anni nel caso di JP Morgan, e soppesare molteplici scenari, per Morgan tutti relativamente positivi.
«È prevedibile molta volatilità legata alla nuova regola», ha ammesso di recente Maria Mazilu di Moody’s Investors Service, aggiungendo che il vero test dell’attenbilità della riforma potrà essere soltanto la prossima crisi. È anche immaginabile, oltretutto, che al cospetto di pressioni contro nuovi giri di vote regolamentari le authority alleggeriscano parallelamente altri requisiti di capitale per compensare le nuove riserve sotto il Cecl.
Un corretto funzionamento di questo nuovo capitolo delle riforme avrebbe tuttavia indubbi vantaggi in caso di crisi: gli istituti sarebbero meglio attrezzati per assorbire rovesci e attutirne gli effetti di contagio. Avrebbero a disposizione un ulteriore cuscinetto di salvataggio. In particolare un portafoglio di crediti potrebbe evidenziare affanni prima dello scoppio di una crisi vera e propria e comparire nell’outlook Cecl. Ancora più urgenti potrebbero rivelarsi i segnali Cecl davanti allo sviluppo di un clima recessivo, con scosse sui mutui come sui prestiti per gli studenti, o in presenza di ritorni a pratiche significativamente più rischiose e aggressive da parte delle banche.
Tanto più che, se nessuno azzarda al momento scommesse su futuri traumi, la cautela serpeggia tra analisti e regulators, memori del passato shock. Ragioni di essere all’erta affiorano anche da statistiche all’apparenza incoraggianti. L’anno scorso negli Stati Uniti sono fallite solo quattro banche, tutte con asset minimi. E nel 2018 non era avvenuto alcun crack. Come se non bastasse, nell’ultimo anno fiscale gli istituti sulla “lista nera” delle autorità della Fdic si sono ridotti a 55, meno dei già pochi 71 di dodici mei prima. Il problema? Lo spettro è che l’ottimismo celi rischi e inneschi spirali di prestiti irresponsabili. Alcuni segni preoccupanti sono già tenuti sotto osservazione: il debito delle società non finanziarie è a livelli record in rapporto al Pil, con quello delle aziende meno solide cresciuto vertiginosamente. Sul fronte dei consumatori, i prestiti auto si sono impennati del 56% in un decennio, con consumatori in affanno per pagarli. Sulle famiglie pesa l’alto debito sanitario, causa di fallimenti individuali, come quello studentesco, a nuovi massimi storici. Anche le carte di credito mostrano corse all’indebitamento e i mutui sono tornati a moltiplicarsi. Il 2020 ha sì trovato un’America con un’economia in carreggiata e solida occupazione ma anche con famiglie schiacciate da 14.000 miliardi di debiti.
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Marco Valsania