Il Sole 24 Ore, 30 gennaio 2020
Gli effetti della Brexit
bruxelles
Poche ore dopo il referendum britannico del 23 giugno 2016 che sancì la clamorosa uscita del Regno Unito dall’Unione, Mark Rutte organizzò in tutta fretta un imprevisto consiglio dei ministri ristretto nell’ufficio del premier all’Aja, la Torentje. Nelle strade di Eindhoven e di Utrecht, il leader nazionalista Geert Wilders già minacciava Nexit, una prossima uscita anche dell’Olanda. Per il primo ministro si trattava di discutere e di analizzare le cause, le conseguenze e soprattutto il futuro della politica estera olandese.
A quattro anni dal voto referendario britannico, Brexit si conferma un terremoto politico, dopo quasi mezzo secolo di partecipazione inglese alla costruzione comunitaria. «È proprio così – nota Piotr Buras, direttore a Varsavia dello European Council on Foreign Relations –. Brexit cambia i rapporti di forza tra i Paesi. Prima ancora che l’uscita del Regno Unito diventasse realtà, abbiamo già notato i primi cambiamenti». Se e quanto la scelta britannica indurrà a una maggiore integrazione politica della zona euro è però ancora molto incerto.
In questi decenni, il ruolo del Regno Unito nella costruzione comunitaria è stato ambivalente, come racconta Kevin O’Rourke in “A Short History of Brexit From Brentry to Backstop” (Penguin, 2019). Certamente il giudizio non può essere univoco. Da un lato, la Gran Bretagna si è opposta a legami politici troppo stretti, chiedendo esenzioni (opt-out) negli ambiti più delicati, dagli affari interni alla moneta unica, e frenando il processo di integrazione. Dall’altro, ha giocato un ruolo influente nel costruire il mercato unico, nel difendere una cultura liberale, nel promuovere la ricerca e l’innovazione.
Dal 1° febbraio, quando Londra lascerà i consessi comunitari, tutti i Paesi si sentiranno orfani (soprattutto quelli che all’integrazione europea non hanno mai creduto). Avranno perso una sponda – vera o presunta – con cui negoziare un particolare interesse nazionale, vincere le resistenze di un altro partner, formare minoranze di blocco. L’Olanda è un caso da manuale. Spiega Roy Kenkel, portavoce della Rappresentanza olandese presso l’Unione qui a Bruxelles: «Il voto inglese ha avuto un grande impatto sulla classe politica e imprenditoriale olandese perché l’uscita del Regno Unito significa la fine di uno dei pilastri della politica estera del Paese».
Con Brexit, l’Olanda perde un alleato nella difesa della libera concorrenza e del mercato unico. Non per altro la diplomazia olandese si vuole più assertiva nel comunicare il proprio punto di vista nei consessi comunitari. Il governo olandese ha rafforzato la propria rete diplomatica in Europa e portato da due a sei il numero di funzionari dell’ufficio stampa della sua rappresentanza brussellese. Dal 2017, il premier Rutte ha pronunciato discorsi sulla politica europea del suo paese a Berlino, Strasburgo e Zurigo.
L’Olanda si è fatta promotrice di nuove alleanze. È a capo di una nuova Lega Anseatica, che riunisce la Danimarca, la Finlandia, l’Irlanda, i Paesi baltici, la Svezia. Vuole difendere l’ortodossia finanziaria con quella punta di curioso nazionalismo cosmopolita che l’ha sempre contraddistinta. «La partenza del Regno Unito – commenta il diplomatico Kenkel – significa che l’Olanda non può più dare per scontato che altri difenderanno la sua visione. Dal referendum inglese in poi, L’Aja ha deciso di perseguire nuove coalizioni per sostenere proprie proposte o nel caso creare minoranze di blocco quando le iniziative europee sono ritenute indesiderabili».
In passato, l’Olanda ha usato la sponda inglese per influenzare l’impulso della coppia franco-tedesca. Lo stesso ha tentato l’Italia. Ferdinando Nelli Feroci è oggi presidente dell’Istituto Affari Internazionali; in passato è stato rappresentante italiano presso l’Unione e anche commissario europeo (nel 2014). «Ci sarà una ridefinizione dei rapporti – spiega da Roma -. In passato l’Italia ha cercato il gioco di sponda con il Regno Unito per fare da contrappeso alla coppia franco-tedesca, ma non ho mai percepito tra i due Paesi particolari affinità, come invece tra l’Italia e la Germania o l’Italia e la Francia. Nelle occasioni più difficili Londra è stata latitante».
Nei fatti, secondo l’ex diplomatico, Brexit dovrebbe cambiare relativamente poco per l’Italia, tanto più che da tempo, con l’arrivo della moneta unica, «il Regno Unito era ormai ai margini delle decisioni europee». Lo stesso non può dirsi per l’Europa dell’Est. Questa regione ha potuto contare sull’appoggio inglese fin dall’allargamento, che la Gran Bretagna ha voluto fortemente nei primi anni di questo secolo. Da Varsavia, il direttore dell’ECFR Buras nota che la Polonia per esempio perde l’alleato inglese nella difesa del mercato unico proprio «mentre i grandi Paesi diventano più protezionisti, più attenti ai rischi di dumping sociale». «L’equilibrio dei poteri sta cambiando a danno del libero mercato – sostiene il ricercatore–. La Germania è stata tradizionalmente a metà strada tra la Francia e il Regno Unito su questo aspetto. Con Brexit, la mia sensazione è che sarà costretta ad avvicinarsi alle posizioni dei Paesi dell’Est pur di difendere un certo liberismo in economia». Si deve presumere che la recente scelta francese di frenare l’allargamento dell’Unione all’Albania e alla Macedonia del Nord sia segnata anche dalla paura di rafforzare l’influenza tedesca nella regione, in un momento di incertezza nell’equilibrio delle forze in campo.
Anche su un altro tema, i Paesi dell’Est perdono un alleato: la politica estera e il rapporto con la Russia. In questi anni, Londra si è dimostrata particolarmente combattiva contro il presidente Vladimir Putin. In più di una occasione, il Regno Unito ha espresso sentimenti antirussi non dissimili da quelli polacchi o baltici, per esempio dopo la confusa vicenda dell’avvelenamento dell’ex spia russa Sergej Skripal nel 2018. Mentre Francia, Italia e possibilmente anche la Germania tentano la strada della normalizzazione con Mosca a sei anni dall’annessione della Crimea, fosse solo dinanzi alle guerre in Libia e in Siria, è possibile che Brexit comporti un maggiore isolamento dei Paesi dell’Est in politica estera.
L’uscita del Regno Unito dalla Ue avrà un impatto anche sul rapporto franco-tedesco. In questi anni, sia Parigi che Berlino hanno usato Londra per raggiungere obiettivi fuori dalla portata del loro rapporto privilegiato o anche per svincolarsi da un abbraccio troppo forte. Nel 1998, il presidente Jacques Chirac e il premier Tony Blair avviarono una collaborazione nella difesa tra due Paesi con l’arma nucleare. Sulla scia della crisi scoppiata nel 2008, fu la Germania a tentare la strada della cooperazione con il Regno Unito in campo industriale.
Scomparso il Paese-sponda, cosa faranno Berlino e Parigi: cercheranno un sostituto nello status quo o approfitteranno di Brexit per perseguire una nuova integrazione politica? L’ambasciatore Nelli Feroci è convinto che molto dipenderà dal tipo di accordo di partenariato che i Ventisette negozieranno con Londra e da come la Gran Bretagna rimarrà legata all’Unione. Sia a Berlino che a Parigi vi è consapevolezza di dover rafforzare la zona euro. Quanto le pressioni nazionaliste nei due Paesi e l’atteso riavvicinamento della Germania con l’Est Europa nella difesa del libero mercato influenzeranno la partita rimane però una delle tante incognite di Brexit.
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Beda Romano