Corriere della Sera, 29 gennaio 2020
Il borgo con un solo abitante
È l’unico residente di questo borgo fantasma e la sera, quando attraversa al buio il giardino curato e perfettamente in ordine e sale le scale fino all’ingresso al primo piano, sente solo il rumore dei propri passi. Intorno regna il silenzio e, se si volta a guardare, lo scenario è da brividi.
Crepe sui muri dei palazzi, finestre rotte, transenne, giochi dimenticati, biciclette arrugginite e legate alle grondaie, persino una scarpa da tennis che qualcuno deve aver perso nel trambusto quando la terra si è messa a tremare. Lui, Domenico Pietrella, pensionato di 66 anni, una vita trascorsa come operaio sulle piattaforme petrolifere dell’Eni, tra Congo, Egitto e Libia, è nato qui, a Muccia, in provincia di Macerata, a due passi dalle rive del Chienti, il fiume che separa il paese dalla statale e nel Medioevo alimentava i vecchi mulini per produrre cereali, e da qui non se ne andrà. È il solo che in centro storico ha la residenza agibile, neanche un graffio dagli ultimi terremoti, il resto è zona rossa.
Se non fosse per il vento che ogni tanto fa scricchiolare le foglie secche e smuove i rifiuti ammonticchiati agli angoli delle strade, le ore scorrono senza rumori in questo luogo che ora appare surreale, sospeso nel tempo. L’orologio del campanile è tornato in funzione, ma per gli 870 residenti (910, dice l’Istat, ma dall’ultima rilevazione parecchi sono andati via) le lancette si sono fermate alle 21.18 del 26 ottobre 2016, quando la seconda delle scosse di quella terribile giornata, uno schiaffo di magnitudo 5.9, li scaraventò definitivamente in strada e lasciò semidistrutte le loro case.
In centro, ci sono i resti del paese che fu. Ben visibile, tra gli altri, l’ingresso del «ristorante del Cacciatore», che in passato è stato una meta enogastronomica per gli abitanti e i viaggiatori, con i suoi piatti raffinati e i sughi cucinati a fuoco lento per ore.
«Tutto è cambiato da quella sera – racconta Domenico —, quando arrivò (la scossa, ndr) capimmo subito che i danni erano seri. Ci precipitammo giù in strada, impauriti, e restammo lì per ore. Alcuni di noi cercarono rifugio nelle baracche rimaste inutilizzate dopo i lavori della superstrada». L’unico abitante del borgo si accende una sigaretta, socchiude gli occhi mentre costringe la memoria a tornare indietro fino al momento che ha cambiato la sua vita. Sono trascorsi tre anni e tre mesi e il tepore del camino non serve a restituire una parvenza di normalità a quello che lo circonda. «Qui tutto va a rilento, anche gli altri paesi della zona sono rimasti fermi. Io – sospira – di sicuro la nuova Muccia non la vedrò».
Il sindaco, Mario Baroni, conferma le difficoltà: «Siamo il comune delle Marche con la più alta percentuale di sfollati, 78,57 per cento. Siamo disponibili a rimboccarci le maniche, ma qualcuno ci deve aiutare». Baroni è tra i sindaci locali che di recente si sono rifiutati di incontrare il governo. «Non ne posso più di ascoltare parole», taglia corto. «Conservo però la speranza. Ci metteremo venti anni, forse più, per rinascere, ma abbiamo tanti progetti da portare avanti». Uno di questi è la ristrutturazione dell’ex Palazzo Paparelli, un gioiello del tredicesimo secolo in stile gotico veneziano. L’intenzione è farne la nuova sede municipale, oggi ospitata nei container assieme all’ufficio postale, allo sportello di una banca e a due ambulatori medici. Non c’è un luogo di aggregazione, la gente esce e vaga lungo le vie senza una meta precisa. «La Croce Rossa ha promesso di metterci a disposizione una struttura in cui poterci incontrare», dice il sindaco.
Piccoli segnali arrivano dalla riapertura del bar, in una delle tante casette post-terremoto. A inaugurarlo sono stati Fabio Capitani e Silvia Serfaustini, cugini imprenditori uniti dalla voglia di non arrendersi. «Lo facciamo – dice lui – per chi crede che qui sia tutto finito».