Bembibre ha iniziato a indagare la storia culturale dell’olfatto quando ancora studiava all’Università di Buenos Aires, dov’è nata. A Londra, con la supervisione di Matija Strlic, ha cominciato a identificare, analizzare e conservare odori antichi. Ad oggi, non esiste una norma internazionale che tuteli il patrimonio olfattivo dell’umanità.
Nel 2001 il Giappone ha pubblicato la lista dei 100 luoghi più profumati del paese. In Francia, l’arte dei maestri profumieri di Pays de Grasse è stata inserita nel patrimonio culturale immateriale dell’Unesco. Ma gli odori non sono considerati ancora un bene da preservare, un’eredità.
Cos’è un odore, chimica o cultura?
«L’odore è fatto di elementi chimici, ma è anche una percezione in un certo luogo, in un certo tempo, ancorata a una certa cultura. In questo senso è un’esperienza umana. Quando ho cominciato a fare ricerca in questo campo mi ero data due obiettivi: capire il ruolo degli odori nel modo in cui esperiamo la nostra eredità culturale e il nostro legame con la storia; e indagare se c’erano degli odori a cui attribuiamo un valore culturale e come avremmo potuto identificarli, analizzarli e documentarli per il futuro».
Quanto influiscono gli odori sulla formazione della nostra conoscenza?
«La nostra conoscenza collettiva del passato è inodore, ma gli odori svolgono un ruolo importante nella nostra vita quotidiana e i ricordi individuali possono essere considerati parte del nostro patrimonio culturale immateriale per le connessioni con la lingua, la tradizione, il turismo».
Perché dovremmo conservare il profumo di una cosa che non c’è più?
«Ogni giorno percepiamo centinaia di odori e questo ha un impatto sul nostro comportamento e sul modo in cui pensiamo. Non ne siamo sempre coscienti perché non riceviamo nessuna educazione a riguardo: studiamo musica o arti visive, ma non il nostro mondo olfattivo.
Alcuni odori ci rendono più attivi, altri influiscono sulla pressione del sangue, altri sul nostro rapporto con la storia».
Da dove è partita per ricostruire questa storia olfattiva dell’umanità?
«Dall’odore dei libri antichi e delle librerie storiche a cui come società attribuiamo un grande valore. Nella biblioteca della Cattedrale di St. Paul, per esempio, dove ho fatto una parte dei miei studi, nel libro dei visitatori molte persone parlano dell’odore dei libri che associano all’odore della conoscenza. È un odore che sta lentamente scomparendo dai nostri ambienti domestici, ci muoviamo rapidamente verso gli schermi elettronici. Poi ci siamo focalizzati sull’odore del potpourri, un aroma creato nel 1750 e utilizzato nelle case, sull’odore dei vecchi guanti di pelle, sull’odore delle muffe nei palazzi storici, nei giardini».
Come si fa a catturare qualcosa di intangibile e a conservarlo?
«Studiamo di cosa quell’odore è fatto, gli elementi chimici che lo compongono, e questo significa estrarre i composti organici volatili. Il processo si chiama microestrazione in fase solida. Usiamo uno spettrometro di massa gascromatografo, che è una specie di naso elettronico. Poi esploriamo l’esperienza sensoriale di quell’odore chiedendo alle persone di descriverne le caratteristiche, l’intensità, la familiarità. Il passaggio successivo è archiviare fotografie, suoni, storie personali associate a quell’odore».
Un quadro, una foto si possono osservare, la musica si ascolta, come si riproduce e rappresenta un odore?
«Questa è la parte più complicata e dibattuta. Le mostre d’arte sugli odori usano diverse tecniche, dalle bolle di vetro in cui il visitatore può odorare un profumo alle mappe sensoriali come quelle dell’artista inglese Kate McLean. Ma siamo ancora a uno stadio sperimentale perché fuori dal laboratorio odorare è un’esperienza multisensoriale: non percepiamo mai un solo odore ma una moltitudine di odori, un giardino, il mare, le altre persone intorno».