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 2020  gennaio 28 Martedì calendario

QQAN91 QQAN40 Biografia di Fidel Castro, gesuita rosso

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Se si vuole capire qualcosa in più della Cuba castrista è opportuno leggere un libro scritto oltre un secolo fa, nel 1883, da Eberhard Gothein: Lo Stato cristiano-sociale dei gesuiti nel Paraguay (La Nuova Italia, 1987). Cosa c’entrano i gesuiti del Paraguay con Fidel Castro? La costruzione sei-settecentesca di quei religiosi, scriveva Gothein, aspira a creare un «organismo politico» dove «fare coincidere pienamente l’autorità dello Stato con quella della religione». Era, il loro, uno Stato teocratico in cui si coltivavano «soltanto alcuni lati dell’essere umano» e «ci si serviva della costituzione politica per reprimere» tutto il resto. Quello dei gesuiti aveva l’ambizione di essere uno «Stato morale», dove era del tutto assente la «coscienza della personalità giuridica del singolo». Il «sentimento più vivace» era la «venerazione verso i sacerdoti».
Gli indiani delle missioni avevano «fede nella potenza miracolosa del padre gesuita», in cui percepivano «l’intervento permanente del soprannaturale». I sacerdoti, a loro volta, risarcivano il culto di cui erano oggetto con «distinzioni morali», premi simbolici e lusinghe nel nome dello Stato. Stato che aveva il monopolio dell’educazione dei bambini. E, dopo i bambini, venivano gli altri: la vita dell’indiano, scriveva Gothein, consisteva in un’educazione permanente. Egli veniva «ammaestrato, sorvegliato, punito, premiato». Un’educazione di tipo militare: l’immagine del gesuita che istruiva all’arte delle armi e poi «marciava al combattimento alla testa del contingente della sua riduzione» era costitutiva di quel modello. Anche in tempo di pace quando i più erano destinati al lavoro nei campi. Lavoro su cui avrebbero sorvegliato gli stessi sacerdoti. Il delitto non era «una illegalità» bensì una «colpa morale» e andava punito, anche nei casi più gravi, con «una penitenza». I rei venivano costretti a una «rieducazione». In casi estremi, espulsi dai villaggi.
Loris Zanatta – nell’interessantissimo Fidel Castro. L’ultimo «re cattolico» che esce in libreria giovedì 30 gennaio per Salerno – sottolinea le similitudini tra il modello del Paraguay di tre secoli fa e la Cuba del dopo rivoluzione del 1959. Per Zanatta quello che nella biografia di Tad Szulc (edita da Sugarco) fu Fidel, il caudillo rosso, è invece un «re cattolico». In che senso? Potremmo stupirci – scrive Zanatta – del fatto «che il comunismo di Castro, il suo universo morale e il suo sistema sociale siano imbevuti di quell’antico retaggio». Ma non è affatto sorprendente che l’ultimo «sovrano comunista» del XX secolo «sia erede ideale dei monarchi cattolici del passato». Sovrano «su un’isola che fu Spagna per secoli, in un ambiente familiare e sociale ispano e cattolico». Né lo è «la sua reazione sprezzante alla diffusione, a Cuba e in America Latina, dei valori e delle pratiche del liberalismo anglosassone e protestante». Il nazionalismo cattolico antiliberale e anticapitalista è tratto comune dell’intera tradizione populista latino-americana «in cui Fidel», scrive Zanatta, «s’iscrive a pieno titolo». 
I pilastri etici e materiali dell’antiliberalismo castrista sono quelli della cristianità ispanica. Il primo è la «fusione tra politica e religione»: compito dello Stato, per Fidel Castro, «è convertire i cittadini all’unica vera fede, all’ideologia del regime, attraverso una capillare catechesi»; lo Stato è «il primo apostolo». Il secondo pilastro è «l’impermeabilità al pluralismo»: nazione e popolo sono per lui «organismi viventi», il cui stato naturale è di «unanimità e armonia»; «includono tutti e a tutti assegnano funzioni»; «dissenso e conflitto sono patologie che li minano e vanno perciò estirpati». Il terzo pilastro è il corporativismo: la società castrista, come quella cristiana della colonia, è formata da corpi, le organizzazioni di massa in cui è inquadrato ogni cubano; l’individuo «ha solo i diritti che l’appartenenza a un corpo gli conferisce», altrimenti è escluso. Siamo in presenza di «un ordine sociale dove l’individuo è sottomesso alla collettività, su cui veglia, garante dell’ortodossia e dell’unità di fede, la Chiesa», ossia «il partito». E su di essa il re, nel nostro caso Castro, «investito di poteri temporali e spirituali».
Povera, analfabeta e cattolicissima fu la madre di Fidel, Lina Ruz, che scelse per l’educazione del ragazzo il collegio La Salle di Santiago. Non stupisce, scrive Zanatta, che il matrimonio tardivo dei genitori (quando già avevano sette figli) esponesse il futuro leader della rivoluzione cubana a imbarazzi e tensioni. Né che intorno al suo battesimo, avvenuto quando aveva già nove anni, regni il mistero; il ritardo «dovette bruciargli se ricordò sempre che i compagni di scuola lo canzonavano chiamandolo judìo, ebreo». La spiegazione più plausibile è che Fidel non potesse essere battezzato finché il padre risultava sposato con la prima moglie, ciò che faceva del piccolo Castro un figlio illegittimo, uno status doloroso in quel mondo. Curioso, fa notare l’autore, quella di Castro è una storia simile a quella di Eva Peròn «con cui Fidel condivide la potente ansia di riscatto». Anche per questo, tra lui e i rampolli della borghesia incrociati in collegio fu «odio a prima vista». Poi venne spostato al prestigioso collegio gesuita di Dolores e successivamente ad un altro istituto sempre dei gesuiti, il Belén dell’Avana, altrettanto importante e severo.

La sua esistenza fu da allora «scandita dai tempi della vita religiosa» di quei gesuiti spagnoli. Convento e caserma, «disciplina militare e rigore morale». La politica venne in seguito e fu per lui una «costola della religione», «l’arena del conflitto tra salvezza e dannazione». Era ossessionato fin da giovane dalla morte, «la morte eroica del martire», «la morte del nemico infedele». Ai tempi del Belén ebbe le prime esperienze politiche, entrando in conflitto con i comunisti, che lo definirono sprezzantemente «piccioncino dei gesuiti». Comunista divenne presto suo fratello Raul, lui invece si fece le ossa nell’ambigua battaglia contro Ramon Grau San Martin, fautore di una costituzione democratica, eletto Presidente nel 1944. Prese parte anche ad alcuni velleitari tentativi di uccidere Grau, ma non si limitò a Cuba: nel 1947 ebbe un ruolo nella congiura dei dodicimila volontari che si radunarono nell’isolotto di Cayo Confites per liberare Santo Domingo dalla dittatura di Rafael Trujillo. In maggio aderì al Partito Ortodoxo di Eddy Chibas, che però diffidava della sua focosità. Nel novembre di quell’anno la sua foto fu pubblicata su «Bohemia» e questa fu la sua definitiva consacrazione. Nel 1948 il partito Ortodoxo venne sconfitto alle elezioni e fu eletto un nuovo presidente, Carlos Pio Socarras. Chibas, con a fianco Fidel, scatenò contro Socarras una violenta campagna ma, nel 1951, non riuscendo a dimostrare le proprie accuse, si suicidò nel corso di una diretta radiofonica. Trascorsero pochi mesi e nel marzo del 1952 andò al potere con un colpo di Stato Fulgencio Batista (che aveva provato ad attirare Castro con sé). Fidel fin dai primi momenti mosse contro di lui come aveva fatto nei confronti di Grau e di Socarras. 
Il suo primo gesto eclatante fu l’assalto al Moncada, la caserma di Santiago de Cuba, il 26 luglio 1953. Fu arrestato con tutti i suoi. La madre corse a Santiago e cercò l’arcivescovo galiziano Enrique Pérez Serantes, amico di famiglia. Questi contattò il capo militare della provincia e ottenne che a Fidel fosse risparmiata la vita. Poi, non fidandosi delle rassicurazioni, «scrisse una lettera pastorale per rendere pubblico l’impegno alla clemenza».
In seguito Castro fece di tutto per far dimenticare l’intervento di Pérez Serantes e per esaltare invece la propria autodifesa al cospetto della corte. Fu, quello a sua discolpa, un discorso che durò ore: «Condannatemi, non importa, la storia mi assolverà», disse in quell’occasione citando tra gli altri San Tommaso d’Aquino e Juan de Mariana, un gesuita spagnolo del XVI secolo. La sua fu, secondo Zanatta, «l’arringa di un focoso gesuita». Venne condannato a quindici anni di detenzione, ma il 15 maggio del 1955, grazie a un provvedimento di amnistia voluto proprio da Batista, uscì dal carcere.

Dal 1956 Castro riprese la lotta sulla Sierra Maestra. La Chiesa – non quella romana, oltremodo perplessa – si fidò di lui e gli diede una mano. All’Avana i suoi si riunivano nella parrocchia del padre Boza Masvidal. Il «New York Times» – rassicurato da queste relazioni – inviò a Cuba Herbert Matthews, i cui articoli negli Stati Uniti generarono simpatia nei confronti di quel «leader idealista che voleva abbattere la dittatura e introdurre a Cuba la democrazia». Il 1° gennaio 1959 Fidel conquistò il potere e la Chiesa si fece garante per una transizione senza (quasi) spargimento di sangue. In quel momento Castro volle al suo fianco Pérez Serantes e parlò di una prima rivoluzione, la sua, realizzata con il sostegno della Chiesa. La quale Chiesa equivocò il senso di quelle dichiarazioni e per qualche mese pensò di avere mano libera. Ma Fidel la disilluse e, dopo la manifestazione di un milione di cattolici all’Avana, si avvicinò ai comunisti e creò problemi sia all’Azione cattolica che allo stesso Pérez Serantes. Voleva mettere in chiaro che era lui la suprema autorità del Paese, anche in campo religioso.
La Santa Sede fu presa in contropiede. Ma in sintonia con il Concilio Vaticano II nominò nunzio a Cuba Cesare Zacchi, che seppe riprendere un proficuo dialogo con Fidel. Il quale già nel 1963 se ne compiacque pubblicamente e dirottò le proprie invettive contro presunte «sette religiose al servizio della Cia». Da questo momento il suo bersaglio divenne il mondo americano a partire dal presidente John Kennedy, che nelle ultime settimane di vita – a dispetto di una mediazione tentata senza successo dal giornalista francese Jean Daniel – fu definito dal leader cubano «demagogo» e «ruffiano». 

Il libro di Zanatta non è interamente dedicato ai rapporti tra Fidel e la Chiesa. Anzi vuole essere (ed è) una biografia puntigliosa di ogni aspetto della vita politica del leader cubano. Ma è curioso notare qualche analogia tra il percorso di Castro e quello del primo pontefice latinoamericano, Papa Francesco. Entrambi alle prese con la «teologia della liberazione», Fidel più esplicitamente entusiasta. Nel novembre 1971, nel corso di un viaggio in Cile, mette in qualche imbarazzo Salvador Allende (all’epoca desideroso di accreditarsi come moderato) per le parole incendiarie che usa nell’esaltare l’esperienza dei «cristianos para el socialismo». Nel 1974 Henry Kissinger cerca di stabilire un contatto con lui, ma si rende conto che la sua ostilità al mondo anglosassone è incomparabilmente più accentuata di quella dei russi e persino di quella dei cinesi di Mao Zedong.
E fu su questa base che già nel 1978 Castro «incontrò» (a quei tempi non ancora fisicamente) Karol Wojtyla. Di Papa Giovanni Paolo II gli piacque all’istante l’ostilità all’ethos liberale, per lui più importante dell’anticomunismo. In questa chiave Fidel trovò una nuova patria a Managua, dove strinse amicizia con il brasiliano Frei Betto (con cui scrisse il libro La mia fede, edito dalle Paoline), il sacerdote ministro Ernesto Cardenal e un giovane cristiano anch’esso brasiliano destinato a diventare presidente del proprio Paese: Ignacio Lula da Silva.
Fu a quell’epoca che il padre generale dei gesuiti, Pedro Arrupe, si disse orgoglioso di Fidel. E Wojtyla non respinse le offerte di dialogo. Anzi. Gli concesse un’udienza privata in Vaticano (novembre 1996) e qualche tempo dopo confidò al presidente brasiliano Fernando Enrique Cardoso che quel cubano gli aveva fatto simpatia. Infatti ricambiò, due anni dopo, la cortesia andando a trovarlo a Cuba. In quell’occasione Castro parlò pubblicamente delle «colpe», anzi degli «orrori», della Chiesa ai tempi della conquista spagnola e propose arditi paragoni tra quelle malefatte e la politica degli Stati Uniti di Bill Clinton nella seconda metà degli anni Novanta. Il santo padre, anziché darsene pensiero, se ne compiacque. Segno, osserva Zanatta, che «l’antiliberalismo univa più di quanto il socialismo dividesse». Castro non fu affatto entusiasta della «storica» visita di Obama all’Avana. Lo fu molto di più – ed è normale – per quella di Papa Bergoglio ma allo stesso modo – e questo era meno scontato – per l’incontro con Papa Ratzinger.