Corriere della Sera, 28 gennaio 2020
Biografia di Nicola Luisotti raccontata da lui stesso
Il Trovatore, a febbraio alla Scala, segnerà un ritorno fra il pubblico milanese dopo tanti anni all’estero. A a Parigi, all’Opera Bastiglia, la sua ultima direzione — La Forza del Destino — è stata un trionfo. E l’ultima tappa di un percorso artistico romanzesco, per non dire avventuroso.
«Per diventare quello che sono oggi – dice Nicola Luisotti, 58 anni, toscano della provincia di Lucca – ho dovuto fare tanti lavori, ho fatto il fabbro, ho costruito i cassoni per trasportare il pesce, ho suonato ai matrimoni e alle sagre paesane, e ho studiato molto, anche di notte, e divorato libri e spartiti. Ho diretto il coro della chiesa, suonato in complessi pop e rock, fatto il piano bar. Quando si arriva da un paesino, senza le connessioni delle grandi città, è più dura. E se sei l’ultimo di cinque figli e senza mezzi, devi fare di tutto. Adesso però sono una persona felice...».
Nicola Luisotti è fra i direttori più apprezzati dalla critica e acclamato nei maggiori teatri del mondo: Metropolitan, Staatsoper di Vienna, Covent Garden, l’Opera di San Francisco, di cui è stato direttore musicale fino allo scorso anno, con un intermezzo al San Carlo di Napoli, e in altre prestigiose sale da concerto, inclusi i Berliner Philarmoniker, la Filarmonica della Scala, l’Accademia di Santa Cecilia. Da due anni è direttore associato a Madrid. I primi applausi li prese a 11 anni, dirigendo il coro della parrocchia. Poi fu ingaggiato al festival pucciniano di Torre del Lago, come artista del coro e professore d’orchestra, approdando infine alla Scala di Milano al fianco di Riccardo Muti e Lorin Maazel, i maestri della sua giovinezza.
Lei crede al destino?
«Credo nelle circostanze favorevoli e nella volontà. Senza il parroco di Bargecchia, il paese dove sono nato, che mi fece fare i primi accordi sull’armonium, e senza mio padre che mi insegnò i primi solfeggi, probabilmente non avrei imparato a suonare, ma loro tirarono fuori quello che avevo dentro, cioè la musica. Io credo che la musica sia una conseguenza. Ce l’abbiamo dentro tutti, fa parte del Dna, anche se a qualcuno non piace né suonare né ascoltare. È un po’ come la parola, s’impara a parlare da bambini, poi si deve studiare la grammatica. Fondamentale è stato l’incontro con Puccini, nei miei primi anni di lavoro a Torre del Lago. Studiare le sue partiture, seguire le sue istruzioni drammaturgiche mi ha aperto spazi infiniti. Credo che dirigere Puccini non sia soltanto un impegno di abilità tecnica. La sua musica si respira, solo così si accompagnano esecutori e pubblico in un sogno».
Che cosa si prova quando si arriva così in alto?
«Non sei mai soddisfatto, se vuoi continuare a migliorarti. Ma c’è sempre un momento in cui devono ancora contare tempo libero, amici, affetti, la casa dove custodisci ricordi, cimeli, la prima bacchetta e il primo spartito, il biliardo (la mia seconda passione). Giro il mondo, ma appena posso torno nel mio casolare di Corsanico dove io e mia moglie Rita ci divertiamo in cucina».
Si dice che dietro un grande uomo ci sia una grande donna.
«Stiamo insieme da trentasei anni, ci conosciamo dai tempi delle scuole medie. È stata lei a spingermi e sostenermi. Quando ero ancora un ragazzo mi regalò uno spartito della Tosca. Se ci credi veramente un giorno la dirigerai al Metropolitan di New York, mi disse. E così è stato, una ventina d’anni dopo, il momento forse più importante della mia carriera».
Come lo ricorda?
«Cominciò con una mattina di terrore. Avevo 39 di febbre e dovevo salire sul podio la sera della prima, al Metropolitan di New York. Andava in scena la Tosca, nel famoso allestimento di Zeffirelli. Stavo malissimo e mi sentivo morire, ma appena si aprì il sipario cominciai a dirigere, come un automa, guidato dalla musica. Alla fine fu un’ovazione. Lavorare con Zeffirelli è stata un’emozione continua. Una genialità totale, espressa con eleganza, fiducia e rispetto di tutti. Qualcuno lo ha criticato, considerandolo un po’ retrò, ma i suoi allestimenti sono la perfetta cornice del melodramma italiano che tutto il mondo ci invidia».
Eppure vanno di moda allestimenti provocatori, la modernizzazione dell’opera, genere «Don Giovanni» fra i grattacieli, «Bohème» sulla luna, «Rigoletto» nel pianeta delle scimmie e così via...
«Molti registi pensano di catturare il pubblico più giovane violentando la cornice storica, ma così si rischia di uccidere l’opera e anche di perdere quelli che prima all’opera ci venivano! La musica, lo spartito, le storie non possono cambiare. Si possono fare trasposizioni di epoche, fare invenzioni sceniche, ma non si può stravolgere il senso. L’opera è un tutt’uno di musica e libretto. I grandi autori, da Mozart in poi, componevano musica a partire dal libretto, ovvero dalla storia. Siccome non si può cambiare la musica, cambiamo la storia? Non ha senso. Chi andrebbe ad ammirare una Gioconda in minigonna o una Pietà macchiata di vernice? Purtroppo ci sono alcuni registi che tendono a prevaricare il compositore, e questo non fa bene né al pubblico né a loro...».
Riccardo Muti ha detto che direttori si nasce. Qual’è la molla? Istinto di comando, egocentrismo?
«Sono d’accordo, è una capacità innata che si perfeziona con il tempo e lo studio, tanto studio. Alla terza volta che sbagli esci dalla giostra. O ti accontenti di giostre più piccole o decidi di fare altro. Ci vuole anche una dose di incoscienza. Hai davanti a te e dietro le quinte duecento o trecento persone che si muovono ai tuoi cenni. Ma dirigere non significa comandare. Si deve avere una visione profonda del lavoro che si sta eseguendo e si deve sedurre il cuore dei musicisti prima e del pubblico poi, cercando di tirare fuori il meglio da tutti».
Chi sono stati i suoi maestri?
«Nessuno potrà mai imitare von Karajan o Toscanini o Abbado o Kleiber. Non soltanto perché grandissimi, ma perché ognuno di noi è un pezzo unico, nel bene e nel male. Si può però cercare di migliorare se stessi, andare oltre i propri limiti. Un grande amico, Gabriele Lavia (abbiamo fatto insieme tante cose incluso un bellissimo Attila alla Scala), sostiene che tutto proviene dal corpo, e che per muoverlo serve un grande talento che proviene dal nostro intimo essere. Una grande verità».
Presto tornerà a dirigere in Italia. Che cosa si prova dopo tanti anni?
«Tornare in Italia è sempre un grandissimo piacere. Sono orgoglioso di dirigere ancora alla Scala e di essere stato fra i candidati alla direzione musicale di questo teatro leggendario, con affettuose sollecitazioni anche da parte dell’orchestra».
Quanto è importante all’estero l’opera italiana?
«L’opera all’estero è essenzialmente italiana. Mozart ha scritto opere meravigliose in italiano. Quest’arte è il più formidabile ambasciatore del Paese. Più o meno, il 70 per cento delle opere in cartellone nei teatri internazionali sono italiane e cantate in lingua italiana».
Però si dice manchino le novità.
«Sovrintendenti e direttori artistici sono sempre a caccia di novità, ma le poche cose buone sono poco apprezzate dal grande pubblico. Il linguaggio musicale sembra essere andato oltre le capacità di ascolto dell’essere umano. Si attende la nascita di un nuovo Mozart, o di Puccini o Wagner... Ci sono compositori in grado di scrivere cose belle, ma quando lo fanno, i richiami al passato sono troppo evidenti. A San Francisco ho commissionato a Marco Tutino un’opera nuova tratta dalla Ciociara di Moravia, ed è stata un trionfo».
E spesso vengono criticati anche gli interpreti.
«Questo è un atteggiamento di una piccola parte del pubblico che rivendica il primato della competenza. Nei confronti di un artista si fanno paragoni con grandi interpreti del passato, anziché apprezzare le qualità di chi si esibisce oggi. Io dico che il passato, vissuto in questo modo, è la morte del presente».
Vuol dire che lavorare in Italia è più difficile?
«Se si ha talento, il pubblico e la critica lo capiscono ad ogni latitudine. In Italia non è più difficile, è forse più complicato. Non si fanno programmi a lunga scadenza, a causa delle risorse sempre incerte. Come possono i nostri poveri direttori artistici e sovrintendenti programmare a tre o quattro anni se non sanno di che budget potranno disporre?».
Tornerà in Italia?
«Vivo negli Stati Uniti oramai da tanti anni, da italiano residente all’estero, ma non mi sento uno sradicato né tanto meno un emigrante. La mia casa è oramai l’opera e nella buca d’orchestra mi sento al mio posto in qualsiasi teatro del mondo».