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 2020  gennaio 28 Martedì calendario

Al mercato di Tripoli si vendono soldati

I ghanesi, no. «Non sanno neanche come si tiene in mano un mitra». I ciadiani, sì. «Quelli si sentono libici e hanno voglia di combattere». Anche gli eritrei vanno bene. «Sono soldati nati». Il meglio però restano i sudanesi: «Molti sono arrivati qui come mercenari e per loro è facile prendere un compaesano e reclutarlo nelle milizie…».
La rotonda Fashelom, alla periferia di Tripoli, è il discount del soldato. L’outlet del mercenario low cost. Il self service del migrante da arruolare. Alle sei del mattino la scena è identica a questa rotonda e in tutte le città della Libia, in Tripolitania e in Cirenaica, al mercato dell’ovest di Sarraj e alla fiera dell’est di Haftar. Si cerca carne da cannone. E l’ufficio di collocamento per la guerra è ovunque, fra i palazzi in costruzione o nel retro dei bar. In Libia, al contrario di quel che si crede, non è più d’un migrante su dieci a stare nei centri di detenzione: gli altri sono per le strade, liberi di sognare l’Italia e poco altro, spesso in condizioni non meno terribili. 
La merce umana così s’espone di buon’ora sui marciapiedi sbrecciati – decine d’africani ad aspettare in ciabatte, i piedi impolverati come le vite, neri di pelle e di futuro – e chi passa col pick-up si ferma qualche minuto, scruta i lavoranti in offerta speciale, ordina ciò che serve: uno che oggi gli porti la carriola per cinque euro a giornata, uno che sappia dare la biacca a un palazzo, uno che scarichi i camion. O uno che se ne vada in guerra: a sparare nelle milizie, se è buono; a spalare nelle retrovie, se non sa far altro. C’è chi dice sì perché in fondo pagano, 300 euro al mese più vitto e alloggio. C’è chi dice no, perché non vuol pagare con la vita. C’è chi non dice niente perché il dio dei libici non paga il sabato e nemmeno gli altri giorni, e quindi si va e basta: «Fino a due giorni fa c’era qui un ragazzo ciadiano che si chiama Abu Bakar – raccontano – un tebu delle tribù del sud. Fa il muratore. Se però vuoi il lavoro, gli hanno ordinato, prima devi andare nella zona di Salah-al-Din». Ma là non ci sono cantieri, c’è il fronte… «Lui sa cavarsela». 
È il caporalato dei soldati. Le compravendite sono un segreto ben protetto: dopo lo scandalo del mercato degli schiavi, filmato due anni fa dalla Cnn, guai a chi ne fa parola. E appena chiediamo al comandante Nasser Aamar, 50 anni, a capo di una qatiba di 300 uomini che difende Tripoli, la risposta è un’altra domanda: «Perché usiamo i migranti? E allora perché non chiedete a Haftar come mai usa i mercenari del Niger, i ribelli del Mali, gli ufficiali egiziani, giordani, emiratini?...». 
L’arruolamento funziona così: «Loro non ti dicono d’entrare nelle milizie – racconta M. A. O., 44 anni, un nigeriano che in patria faceva il calciatore —. Si presentano nel cantiere dal padrone libico e comunicano di volere quindici persone da mandare al fronte per un mese. Il libico si fa dare i soldi: se i migranti vogliono tenersi il lavoro, devono obbedire e andare con le milizie. Chi non ci sta, è sostituito da qualcun altro preso alla rotonda di Fashelom». Tre anni fa, M. A. O. è stato rapito e in fondo gli è andata bene: l’hanno picchiato, gli hanno chiesto i soldi per il rilascio, ma almeno ha evitato la guerra. «La maggior parte – spiega – finisce alla logistica delle truppe, a lavare gavette. I ciadiani o gli eritrei, più pratici di armi, vanno in prima linea». Non tutti sono sicuri che si tratti d’un vero arruolamento forzato: «I tebu e i mahamid, è noto che si sentano tribù libiche e quindi combattano volentieri – dice Donatella Rovera, di Amnesty International —. Gli altri, è possibile che le milizie li sfruttino per lavorare. Ma questo non può essere tecnicamente definito un arruolamento. Nessuno ha mai trovato la prova che i migranti siano mandati a sparare». Diverso il parere dell’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, che per bocca di Vincent Cochetel ha denunciato tempo fa come nel centro di detenzione di Qaser Ben Gashir siano date agli immigrati le divise e un’alternativa: la libertà in cambio del reclutamento. Anche alla Caritas, se cerchiamo conferme, la risposta è tortuosa: «Non sappiamo di migranti assoldati dalle milizie», (prima versione, ufficiale); «in effetti sappiamo qualcosa, ma non possiamo parlarne perché poi ci fanno grane» (seconda versione, ufficiosa). 
Il venerdì sulla tangenziale, in mezzo al traffico, la carne da betoniera e da cannone si raduna intorno al campo 11 Giugno, uno sterrato che chiamano pomposamente stadio di calcio. Si gioca a pallone, per 50 centesimi si trova un pezzo di carne alla brace, per un euro la foto tessera da tenere in tasca. Ogni tanto passa un pick-up: «Nessuno m’ha mai chiesto d’arruolarmi – dice Ashraf Oukadou, 22 anni, sudanese – ma perché no? Quelli sono soldi sicuri». L’ultima volta, Ashraf ha fatto il meccanico per tre giorni e per dodici ore al giorno: «Alla fine, il padrone libico mi ha riempito di botte. E non mi ha dato un dinaro. Meglio le milizie».