il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2020
Mina, rapper africana e musulmana
Il frastuono dei clacson in sottofondo, il tintinnio della vita che scorre in una polverosa mattina africana, un rumore di stoviglie e un bambino che piange accanto al telefono quando una voce risponde a Dakar, Senegal, e la prima parola che dice è “merci”. Mina la voilée, Mina “la velata”, ultima rivelazione musicale dell’Africa ovest, ringrazia chiunque ascolta e diffonde il suo messaggio di lotta. “Quello che può fare un uomo, lo può fare una donna. E te lo ricanto in questa mia canzone”. È il verso iniziale di uno dei brani più famosi della rapper dagli occhi pece e dalla pelle d’ebano, che vuole cambiare con rime e musica la condizione delle ragazze in Africa. Welcome to Mina style, ripete spesso mentre canta o mentre ti parla.
“Per me il rap è una forza che mi permette di dire quello che voglio. Il rap è un’arma che uso per lottare per quello che considero degno di giustizia”. Senegalese, musulmana, diva coraggiosa, Mina canta “per i diritti di tutte le ragazze”. Non ci sono fiumi di soldi, donne o droga che di solito affollano i testi rap ad ogni latitudine. Scorrono altri temi nelle sue canzoni che denunciano violenza, stupri, la mutilazione genitale femminile, l’assenza di diritto di parola per le donne. O incesto, infanticidio, perché “questi sono gli argomenti che mi interessano e il rap educa, informa, coinvolge le persone, è un vero catalizzatore di cambiamento” dice mentre vocalizza la sua battaglia.
“Il rap non sta mai zitto”. Frasi semplici racchiudono il potere della sua narrazione. Se sei ragazza in Africa è facile avere sfiducia, quasi impossibile è sfidarla. “Perché le ragazze vengono violentate e uccise e questo fenomeno sta crescendo in Senegal. Le persone mi chiameranno femminista e a me sta bene così”. Lo chiosa con la forza della rabbia, ma quella senza collera, la rapper sunnita di 27 anni. Mina si connette ai mondi circostanti delle sue coetanee, tra sorrisi di lutto e rassegnazione per la loro condizione, “per invitarle a uscire di casa e divertirsi”. Niente è ambiguo in lei: ad ogni verso chiede potere per les filles et le femmes, le ragazze e le donne che nomina nelle risposte ad ogni domanda posta, per difenderle, “soprattutto quelle non libere di esprimersi, agire”.
“Mi dicevano tutti di arreté, arreté. Di fermarmi”, ma lei non li ha ascoltati da quando, nel 2013, ha iniziato a comporre versi rap, prestando orecchio solo al riverbero dei loop nelle sue cuffie mentre prova e riprova cantando nello studio di registrazione del suo manager a Dakar. Con i suoi video che, un click dopo l’altro, in Africa stanno guardando tutti, fino alle viscere dei deserti, Mina è finita sugli schermi più prestigiosi d’Europa. È una rappeuse pas comme les autres, “una rapper non come le altre”, dice la Bbc, che fa eco al britannico Guardian che l’ha battezzata “nuovo volto dell’hip hop del Paese”.
“Mi hanno chiesto tutti di togliere il velo perché volevano convincermi che essere una donna velata e una rapper era incompatibile” dice fiera. Reclama libertà per le donne, compresa quella per sé, per rimanere velata. In cima alle classifiche la cantante musulmana con il volto incorniciato dalla stoffa inneggia al femminismo e al potere da conquistare “per rompere i tabù”. Alchimista musicale di miserie che ha visto germogliare rigogliose intorno a sé sin dall’infanzia non semplice, Mina non si è mai dichiarata vinta. Ricorda il passato come un début difficile.Sono le parole amare e tristi di una donna bellissima.
La sua carriera è iniziata tra l’incomprensione della famiglia indignata. “Per i miei genitori era difficile sopportare che uscissi da sola la sera, che frequentassi amici maschi o che volessi cantare”. Da quando ha capito di avere la forza di combattere per sé, ha cominciato a farlo anche per le altre. Il rap è il modo che ha trovato per cambiare le condizioni amare delle donne, che ha tradotto in strofe.
I critici la tacciano come anomala o addirittura maligna perché rimane una musulmana sunnita mentre attacca la cultura patriarcale, ma nella scena del rap africano ormai si è imposta sfidando tutto e tutti, dall’inizio della sua carriera. Poiché è stata la prima cantante della nazione a farlo, vive in uno spartiacque polarizzato tra insulti, giudizi e maledizioni da un lato, e omaggi, lodi e profonda gratitudine di un pubblico non solo femminile dall’altro. Non condanna chi ha deciso di non battagliare per affrancarsi, ma con il suo collettivo musicale, il Genji Hip Hop – che compie un tres bon travail, un “ottimo lavoro”, dice, velo o non velo, – supporta il miglioramento della condizione femminile nel resto del Paese, sperando di poterlo fare poi, in futuro, nel resto del continente.
Inni, slogan e aforismi si susseguono mentre canta in una babele di lingue: quella wolof, usata dalla maggior parte della popolazione in Senegal, poi inglese e francese. “Quando canto il mondo è mio, è come se fossi un’altra persona. Quando salgo su un palco, vorrei che non finisse mai”. Ad aiutarla ad emergere due uomini: il produttore e il marito rapper. Un matrimonio che è un’alleanza emotiva, una collaborazione tra le mura di casa, ma non musicale, senza palchi comuni o riflettori.
“Nella nostra società, quando sei una donna, ti dicono sempre cosa fare: non ridere, ma sorridi sempre. Tu dois, tu dois, tu dois, devi, devi, devi. Questo ti ripetono”. La guerra di Mina si riduce in una sola parola: mun, ma è un lemma intraducibile fuori dalla lingua wolof. Un termine che racchiude il contesto triste e condiviso delle donne africane. “Munè quando ti minacciano e non dici niente, ti violentano e non dici niente, è quando ti tieni tutto dentro perché ti hanno insegnato che la donna deve stare zitta” dice Mina. Il munè quello che te frappe, te casse, “ti colpisce, ti spezza” ma quando non lo fa, poi senza paura cominci a combattere.