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 2020  gennaio 27 Lunedì calendario

Gli inizi in Italia di Kobe Bryant

Soltanto poche ore prima aveva visto LeBron James, il fenomeno a cui aveva passato il testimone, superare il suo primato di punti in Nba. I record sono fatti per essere battuti, avrà pensato, ma il suo feroce spirito competitivo non lo avrà lasciato tranquillo: perdere, a Kobe Bean Bryant, non piaceva proprio. Fin da quando, da bambino, cominciò a inseguire papà Joe, detto Jellybean, per i campi di basket d’Italia, Rieti, Reggio Calabria, Pistoia, Reggio Emilia. I tifosi apprezzavano le prodezze sotto canestro del giocatore venuto da Filadelfia, ma impazzivano per quel ragazzino tutto riccioli che durante l’intervallo delle partite scendeva sul parquet e segnava da qualsiasi posizione. Uno spettacolo fuori programma.
Un predestinato, Kobe, cresciuto in Italia e diventato «la» pallacanestro. «Tutto è cominciato qui... In queste stradine, su un campetto in piastrelle. Andavo avanti e indietro in bici, con il pallone sottobraccio, e sentivo il profumo, i sapori di questa terra, la cultura, la storia. L’architettura. Non riesco a immaginare un posto più lontano dalla Nba. Eppure in Nba ci sono arrivato». Ci è arrivato studiando i suoi campioni preferiti, Magic Johnson, Michael Jordan, consumando videocassette a furia di schiacciare i tasti play, stop e review. E ripetendo i loro gesti.
Reggio Emilia, la sua casa adottiva. Non passava anno senza che venisse a farsi un giro da queste parti, a trovare i vecchi amici, con cui parlava rigorosamente in italiano. Ci teneva così tanto, alle sue «origini» italiane, da aver voluto che anche le sue figlie studiassero la nostra lingua.
Un ragazzino precoce. Non aveva ancora 18 anni quando si dichiarò eleggibile per il draft Nba senza passare per il college. «Non l’avevo detto a nessuno ma dentro di me ne ero convinto: sì, sarei diventato il giocatore più forte del mondo». Lo scelsero i Charlotte Hornets ma subito dopo lo cedettero ai Los Angeles Lakers in cambio dei diritti su Vlade Divac. E con la canottiera gialloviola Kobe divenne l’icona di una franchigia, della Nba, dello sport mondiale. Kobe, semplicemente.
Più giovane debuttante nella lega professionistica americana, a 18 anni e 72 giorni, Bryant ci mise un po’ a capire (e a far capire) quanto fosse forte, poi nel secondo anno di Nba si rese conto di essere speciale. «Fu un’illuminazione. Durante un time out dico a un mio compagno: ora facciamo così, io prendo palla qui, tu ti sposti lì, il difensore farà questo, tu farai quest’altro, io mi muovo così, pà-pà-pà, e facciamo canestro! Lui mi ha guardato con gli occhi sgranati e ha risposto: ehhh?! Ho realizzato che vedevo il gioco molto più avanti degli altri».
Dove sia arrivato, lo dicono i numeri. Venti stagioni nella Nba, tutte con i colori dei Lakers. Cinque anelli di campione, due volte capocannoniere della stagione regolare, due volte Mvp delle finali e una volta Mvp della regular season, 11 volte nel quintetto ideale della Nba. Miglior realizzatore di sempre dei Lakers: 33.643 punti segnati. Due ori alle Olimpiadi. Più un’infinità di altri primati. Ma le statistiche e i numeri non rendono quanto Kobe sia stato «Kobe», per la pallacanestro e per lo sport mondiale. Non fanno capire quanto la sua feroce dedizione abbia cambiato il basket. «Ossessione», la chiamava lui. «Che significa fare quello che ti piace di più. Farlo al massimo. Farlo cercando di essere il migliore di tutti, sempre. E seguire tutte le strade lecite per diventarlo. Quando fai la cosa che ami, l’ossessione è naturale».
«Mamba mentality», la chiamava. E «Black Mamba» era il soprannome che si era autoaffibbiato, dopo l’oscura vicenda delle accuse di stupro. Una volta chiusa la vicenda processuale, come a dare un taglio al passato, Kobe decise di cambiare il numero di maglia: dall’8 passò al 24. E, caso più unico che raro, i Lakers hanno ritirato entrambe le sue maglie, che oggi restano appese al soffitto dello Staples Centre di Los Angeles.
Quando ha chiuso con il basket, dopo una passerella durata una stagione, lo ha fatto come solo Kobe avrebbe potuto fare: 60 punti nella partita d’addio. Poi il saluto: «Mamba out». L’ultimo passo verso l’immortalità, la condanna alla vita. E ieri l’immortalità ha chiesto in cambio la vita a Kobe. «Mamba out». Maledizione...