La Stampa, 27 gennaio 2020
Bologna, la Stazione dei due mondi
Esistono luoghi simbolo dell’Italia in cui viviamo, ma il primo è un non-luogo: la Stazione Centrale di Bologna. Lo è per la sua storia, per quel che ha rappresentato; lo è per come si presenta oggi, perfetta metafora della situazione del Paese, e lo è infine perché lo snodo ferroviario principale è diventato il crocevia dei destini politici. In questo spazio è possibile trovare indizi di quel che accadrà nel tempo a venire, se si sa interpretare quel che è già accaduto. Dire «Stazione Centrale di Bologna» tiene insieme due realtà che poco si assomigliano e alludono a mondi lontani. Esiste una stazione al piano stradale, storica, e una sotterranea, contemporanea. La prima alloggia i treni che viaggiano a velocità normale e quelli dei pendolari, il cui percorso è un sospiro tra una fermata e la successiva. La seconda è raggiunta dai convogli ad alta velocità, quelli per i quali già è un intoppo la sosta intermedia tra Roma e Milano. Sono due mondi, o meglio due Paesi: spiegano la differenza tra la Prima e la Seconda Repubblica, le diseguaglianze sociali, l’incomunicabilità dei vasi in cui ci si è trovati a nuotare.
Superiore e Inferiore
La Stazione Superiore è in realtà quella inferiore. Entrarci è gettarsi in un calderone umano. L’atrio è piccolo, intasato di macchine automatiche, sportelli volanti, residui commerciali, gente. C’è l’Italia composita, multietnica, affannata. Un’Italia che guarda in su per cercare la strada, o almeno un’indicazione, il proprio momento, perennemente ritardato. C’è un orologio fermo, nell’ala Ovest, alle 10 e 25, come fosse ancora il 2 agosto 1980. Il tempo si è fermato? O è solo un’illusione retorica?
Qualche anno fa chiesero a un campione di giovani bolognesi che cosa fosse successo in quella data. Tutti ricordavano vagamente una strage. Dopodiché, per qualcuno erano state le Brigate rosse, per qualcun altro gli anarchici. Avevano comunque distrutto «la torre». Molti si giustificarono dell’imbarazzo portando la giustificazione: «A scuola non ci hanno fatto studiare questo periodo». In un documentario un ragazzo, spalle all’ingresso, spiega: «Infatti l’orologio è fermo alle dieci e dieci». La loro confusione trova riflesso in quella che è l’ufficialità delle indagini. Esiste davvero una ottantaseiesima vittima? Di chi sono i resti trovati nella bara di Maria Fresu? E dove sono i suoi? È definitivamente provata, quasi quarant’anni dopo, la responsabilità dell’ex Nar Gilberto Cavallini?
Al piano di sopra i misteri non si risolvono mai completamente. Chi ci passa deve conviverci. Ha a disposizione ancora una sala d’attesa che cerca di ingentilire il presente con «la stanza delle coccole», dove fasciare i neonati, quelli che andranno lontano perché, cantava Lucio Dalla, il futuro è un treno che porta lì. I genitori hanno facce stanche, come gli edicolanti e i frequentatori notturni. Per alcuni quella parte di stazione è una quasi fissa dimora, ha tutti i comfort: la vicina farmacia provvede le siringhe e ci sono panchine o anfratti in cui addormentarsi. Con il tempo la situazione è migliorata, ma restano angoli bui, storie dimenticate dai treni che passano come occasioni che vanno altrove, mai rapidi e indifferenti come quelli della stazione di sotto, i siluri dell’alta velocità.
I due mondi comunicano attraverso un tunnel e scale mobili a zig zag, chi li frequenta può non incontrarsi mai. Esiste un ingresso diretto all’alta velocità, un posteggio taxi dedicato, si può arrivare e ripartire senza mai passare per l’atrio di sopra, vedere l’orologio fermo, sfiorare gli altri, essere toccati dal loro ingombro. Come vivere in un quartiere sulla collina o camminare sotto i portici e rimanere ignari delle periferie e della pioggia.
Sarà vero, sempre perché lo assicurava Lucio Dalla, che nel centro di Bologna non si perde neanche un bambino, ma nel lasciare i treni dell’alta velocità si perdono tutti. Le indicazioni sono equivoche, le curve da seguire a U, vedi uomini con la valigetta andare e tornare, riconoscere lo stesso punto e sostare perplessi. Sono i pendolari di lusso, quelli per cui la linea Milano-Roma è una pratica, che hanno un ufficio là e una succursale qua, che in viaggio disdegnano la carrozza silenzio perché debbono tenere il cellulare acceso e rimanere collegati per discutere un budget, una performance, una hard news.
Il miracolo, una volta l’anno
Sono smarriti quanto i diseredati del piano di sopra, ma non lo sanno. Vivono l’attesa in uno spazio enorme e inutilizzato, come le case troppo grandi in cui abitano. Qui ci sono poche panchine e mal distribuite, si resta in piedi a scrutare sullo schermo dello smartphone le informazioni che si potrebbero attendere dall’altoparlante. Si conteggiano i minuti, risparmiano i secondi, si interpreta una vita attribuendo necessità a quella che è solo un’alternativa e neppure delle migliori. Il senso di dispersione del luogo si riflette nell’esistenza di chi lo attraversa.
Eppure esiste un momento in cui i due mondi, sopra e sotto, disagio e privilegio, calca e rarefazione, s’incontrano. Un piccolo miracolo. Avviene una volta l’anno in fondo all’atrio della velocità, dove non c’è più nulla, solo spazio, colonne, una enorme vetrata. Sarà che ogni vuoto allude al sacro, saranno le forme di quell’architettura, ma quella parte di stazione è stata chiamata «la cattedrale». E allora la notte della vigilia di Natale l’arcivescovo della città, Matteo Zuppi, la tratta come tale. Alle 9 e 30, prima della messa tradizionale nella cattedrale per definizione, San Pietro, scende in questa. Trascina con sé i senzatetto e i residenti dei colli, i mendicanti e i commercianti. Mettono sedie pieghevoli, guardano lontano, cantano. È una lunga sosta dove tutti accorrono, il fermo immagine di un film d’azione, ma è anche la riunione temporanea di tutti i possibili destini e il miracolo più grande è che avvenga proprio dove si separano, con un saluto frettoloso o un abbraccio caldo, comunque divisi, su piani diversi, in futuri che non si parleranno più.