il Fatto Quotidiano, 26 gennaio 2020
Intervista a Sydne Rome
“Chi sono io? Una persona normale che ha trovato nella vita delle opportunità pazzesche, e siccome sono curiosa, le ho prese tutte”. Prese e vissute. Prese, a volte subìte, sintetizzate per capire, cambiare se necessario, e crescere. Sydne Rome è un romanzo dietro i suoi occhi azzurri, di un azzurro profondo, grandi, non solo sinceri, consapevoli. Di chi, appunto, ha visto e sa oltre ogni attesa: la fuga in Libano per Julio Iglesias, l’esordio cinematografico con Polanski. L’anno con David Bowie. Sai Baba che la riceve. Fino a quando a 35 anni cambia vita (“temevo di diventare una vecchia attrice sola”), e fissa la sua quadratura all’interno di una famiglia conosciuta e borghese: suo marito Roberto è figlio di Ettore Bernabei, storico direttore generale della Rai. “Esattamente l’opposto di me, e della mia precedente quotidianità; sono diventata abbastanza geiscesca. Non è stato semplice, a partire dal lato religioso”.
Loro cattolici dell’Opus Dei, lei ebrea.
Non solo: anche divorziata e attrice, per questo inizialmente Ettore non era d’accordo, poi i fatti hanno portato a una narrazione differente dai pregiudizi iniziali. Secondo loro avrei ceduto subito. E invece sono qui. Da 33 anni.
Il trionfo dell’amore.
È stato necessario metterci molta testa, perché capivo benissimo le differenze, ma non ero in grado di cogliere il non detto, le sfumature.
Quanto ha impiegato?
Vent’anni per ottenere un rapporto con Ettore, e la maggior parte del tempo sono rimasta in silenzio, eppure la famiglia si riuniva spesso: domeniche, ricorrenze, compleanni di un nucleo ampio.
Vent’anni zitta è una tortura.
Una situazione esotica.
In teoria l’esotica era lei.
Restavo perennemente affascinata dal loro concetto di famiglia borghese, da certe liturgie, dalla struttura, ed è stato fondamentale il divertimento: avevo un obiettivo da raggiungere.
Quale?
Oltre a integrarmi? Riuscire a ottenere il loro amore. E per arrivarci ho lavorato per capire le dinamiche; all’inizio non sapevo come parlare con Ettore: con lui dovevi affrontare solo argomenti di suo interesse, argomenti importanti, perché a tavola non era concesso scherzare.
Soluzione?
Prima di quegli incontri studiavo tutta la settimana: leggevo giornali e riviste per capire quali erano i fatti più salienti e li approfondivo; non improvvisavo nulla, e ogni volta mi scrivevo una specie di sceneggiatura.
È una metafora?
No, realtà. Prendevo appunti e ogni volta imparavo a memoria la mia “parte”.
Non semplice.
Durissimo.
Suo marito cosa le diceva?
Non lo sapeva, credeva fosse una dote.
Alla fine ci è riuscita.
Negli ultimi anni di vita di Ettore passavo il luglio con lui, e il nostro rapporto è diventato bello, e come al solito lui parlava, io ascoltavo; tutte storie poi finite nel suo libro.
Il libro potrebbe scriverlo lei.
Magari con il titolo “Una moglie americana”.
Partita dall’Ohio, centro della politica mondiale.
La regione dei bravi americani, laboriosi e studiosi, dove le università sono tante e ottime; dove gli abitanti trovano la propria realizzazione e non sono depressi come a New York o in California.
Lei vota?
Solo in Italia.
Continua a informarsi?
Certo, oramai ho l’imprinting di Ettore.
È diventata cattolica?
Sì, e un giorno un amico mi ha chiesto: “Ma dentro sei ancora in po’ ebrea?”.
Risposta?
“Sì, ho solo aggiunto il cattolicesimo, lo dice anche il Vecchio Testamento”. E con loro sono riuscita a coinvolgerli nella cultura ebraica.
Tutto ciò ha inciso sulla sua carriera di attrice?
L’ha ridotta: allora lavoravo più all’estero, e ho scelto di restare qui perché desideravo una famiglia.
In che anno è arrivata in Italia?
Nel 1973, e quando ho compiuto 35 anni è scattato il classico campanello d’allarme: temevo di diventare una di quelle vecchie attrici che girano il mondo senza nessuno accanto.
Come mai Roma?
Per un provino: ero iscritta all’università, il pomeriggio frequentavo un corso di recitazione, e d’estate organizzavano un tour teatrale con tappe in tutti gli Stati Uniti; a Pasadena un agente mi ha visto e proposto il viaggio a Roma per ottenere una parte.
E…
Bocciata, però gli stessi della troupe mi hanno spedita a Londra con la bobina del provino sotto al braccio e mi hanno ingaggiata. Da lì è iniziata la mia carriera, incentrata all’estero, mentre in Italia mi sono dedicata alla televisione, che dà più popolarità.
Come “Don Matteo”…
Incredibile, sono vent’anni che va in onda eppure regge benissimo, e Terence (Hill) è sempre bello, con questi suoi perenni silenzi che lo rendono misterioso, anche se in realtà non lo è.
In quale lingua vi parlate?
Soprattutto in inglese e pure con lui cerco di affrontare argomenti di suo interesse, perché non è un chiacchierone.
Gli italiani secondo lei.
Complicati, in mezzo c’è sempre la filosofia di Machiavelli, tante curve della mente e pochi rettilinei; poi a Machiavelli si associa la Chiesa, il Rinascimento e il culto delle tradizioni che respinge le novità.
Però?
Ci sto benissimo.
Ha recitato con Mastroianni, uno degli italiani più celebri al mondo.
Adorabile, buono come pochi e mentre tutti lo consideravano bello, lui preferiva non badarci, non era importante, amava solo recitare, scavare nel personaggio e in maniera seria.
Lei quanto ama recitare?
Tantissimo, mi piace, mi diverte, è come una vacanza da se stessi, una pausa dalla quotidianità, però non è fondamentale.
Ha ottenuto tre copertine di “Playboy”. Il suo lato sexy l’ha divertita?
Molto, però lì per lì non ne ero pienamente consapevole, per me era normale, mentre se oggi ripenso a tutti i corteggiamenti di allora, mi stupisco, e comprendo l’anomalia.
Così tanto corteggiata?
Abbastanza. E di molti non mi interessava. Con altri, come con David Bowie o Julio Iglesias, il percorso è stato differente.
David Bowie.
Diciamo amici per un anno, e non avevo neanche capito bene la sua portata artistica, non lo vivevo per la popolarità, non avevo intuito neanche quanto guadagnava; a differenza dell’apparenza pubblica, era una persona serissima.
Come poteva non aver capito la portata di David Bowie?
Davvero, vivevo così, senza pormi certe domande, e la mia esistenza era dentro lo show business.
Tradotto?
In quei contesti non c’è struttura, si è artisti, dove molto è concesso e i limiti quotidiani arrivano solo dall’educazione ricevuta in famiglia. Adesso i parametri sono differenti.
Cioè?
Oggi è pieno di riviste, immagini sui social, red carpet ovunque, a quel tempo no, allora si era più liberi, c’era più sostanza; (torna a prima) David (Bowie) scriveva canzoni con una facilità mai vista, anche mentre recitava in Gigolò, e poi era una persona divertente, con un’ironia fanciullesca.
All’inizio della carriera ha girato con Polanski. Cosa ne pensa della condanna per violenza sessuale su una tredicenne?
Premesso: nella Hollywood di quel tempo girava molta droga ed era pieno di ragazze disposte a tutto pur di entrare nel mondo del cinema; secondo me è andata da lui per questo motivo ed era una tredicenne fisicamente più adulta.
E Woody Allen?
È differente, lui crede di essere un extraterrestre, e capita a numerosi personaggi dello spettacolo.
Cosa?
Di sentirsi al di sopra degli umani, benedetti da chissà che, al di sopra delle regole. Polansky non è così; quando ho conosciuto mio marito ho capito la particolarità della mia vita precedente: io e lui non avevamo nulla in comune in quanto a esperienze; la sua era normale.
Lo spettacolo, al contrario…
Per starci dentro devi essere disciplinata, sana, quadrata altrimenti non capisci più chi sei, perdi il contatto con la realtà. In questo mi ha aiutata anche conoscere Julio Iglesias.
Il divo Julio.
Al contrario di Bowie era molto preso dalla sua carriera, e dal suo personaggio, però un tipo interessante, anche autoironico, e per lui mi sono infilata in situazioni assurde.
Esempio.
Per stupirlo, a sua insaputa, l’ho raggiunto a Beirut e nonostante la guerra: per quel viaggio sono partita senza visto, sono passata dalla Grecia, poi la Siria, e ho attraversato il confine con il Libano nascondendomi in un camion di giornali.
Tutto questo per Iglesias?
Non solo, quando sono arrivata a Beirut ho sbagliato la zona: avevo chiesto all’autista di portarmi nel più bell’hotel della città, certa che alloggiasse lì. Sbagliato. Quell’hotel era nella parte musulmana, quando lui soggiornava nella cattolica.
Alla fine…
Ci sono riuscita. Ma bel rischio.
In quel periodo ha girato “I dieci giorni che sconvolsero il mondo” con un regista sovietico.
No, quello anni dopo, e le riprese si sono svolte tra San Pietroburgo e Mosca; allora il presidente sovietico era ancora Breznev e il Paese chiusissimo: appena finita l’esperienza ho scritto un articolo per il Wall Street Journal, e a causa delle mie parole non mi hanno più invitata alla prima del film.
Quale la colpa?
Ho raccontato il set, di come tutto fosse celato, non si sapeva nulla, ti svelavano solo giorno per giorno cosa sarebbe accaduto, e non mi riferisco a scene semplici, un giorno mi sono trovata davanti a centinaia di comparse. Per loro gli attori erano inaffidabili, gli ultimi.
La seguivano i servizi segreti?
Non lo so, ma accadevano situazioni strane: ero diventata amica di un ragazzo, e un pomeriggio sono andata a trovarlo in casa sua: da quel giorno non l’ho più visto. Allora non capivo, non ero politicamente corretta.
Cosa intende per “politicamente corretta”?
Oggi sono più consapevole, capisco la politica e le dinamiche, per questo sono appena tornata da una missione in Vietnam: siamo partiti per sminare i terreni, e restituirli ai contadini colpiti dalla guerra, e questo grazie a un’associazione statunitense con la quale collaboro da 18 anni. Ah, ci ho portato pure mio marito.
Già da ragazza era contro il conflitto in Vietnam.
L’ho sempre considerata una guerra ridicola. Vergognosa.
Lei è di sinistra.
Certo che lo sono. E da sempre.
Scaramantica?
Non più, ma anni fa sono andata al Machu Picchu.
Obiettivo?
Chiedere di lavorare. Ah, ho raggiunto anche Sai Baba, e quando mi ha ricevuta, insieme ad altre donne straniere, all’improvviso mi ha chiamata “Cilly”. E io: “Sono Sydne”. “No, sei Cilly”. Poco tempo dopo ricevo il copione di Gigolò e il mio personaggio si chiamava Cilly. Capisce?
Cosa?
Ho attraversato situazioni bellissime e varie. Ora sono qui, dove desideravo. Lo vuole un caffé?
No grazie.
Insisto.
(Confermo il “no”. È inutile: da perfetta donna borghese si presenta con un bel vassoio, tazze di porcellana, vari tipi di zucchero, e il piacere di aver ottemperato a un rito antico).