il Giornale, 26 gennaio 2020
Il record messicano: 35 mila omicidi in un anno
È in un’area geografica estesa come l’Italia del nord che quarantatré famiglie, ormai da sei anni, cercano i resti mortali dei loro figli. Erano allievi della Escuela Normal Rural Raúl Isidro Burgos di Ayotzinapa, stato Guerrero, 100 chilometri a sud della Capital. In cento furono fermati dalla polizia di Iguala sui tre autobus che li portavano a manifestare a Città del Messico. La polizia contestò loro di aver rubato i mezzi una pratica molto usata nelle regioni povere del Paese per spostarsi in comitiva nelle manifestazioni e uccise sei studenti e ne ferì venticinque che avevano tentato di fuggire. Quarantuno riuscirono a scappare sulle colline e chiamarono aiuto, mentre quarantatré furono arrestati su ordine del sindaco Luis Abarca che poi ordinò alla polizia di consegnarli, presso la discarica di Cocula, ai Guerreros Unidos, una banda di soldati marxisti. Fu la loro fine. I giovani, tra i 16 e i 18 anni, furono uccisi a colpi di mitraglietta e dei loro corpi ne fu fatto un falò, una montagnetta di membra coperta di pneumatici e alimentato per ore da fiumi di gasolina, come confessò dopo anni, uno dei guerreros. Quel che rimase tra le ceneri fu sparpagliato tra gli stati di Jalisco e Michoacan.
Gli studenti della scuola agraria di Ayotzinapa sono le vittime più rappresentative e meno anonime. Sono numeri che compongono l’orrendo tasso di omicidi e rapimenti che dà al Messico la maglia nera della violenza, più di Brasile e Venezuela. La strage degli studenti, i cui corpi non sono mai stati trovati, aggiunge altre vittime ai 40mila casi non risolti di persone scomparse. A novembre, ai LeBarón, una pacifica famiglia di contadini Amish messico-statunitense, che aveva denunciato una banda locale di narcos, furono uccisi nove componenti, di cui sei minorenni. I dati sugli assassini per vendetta, business assieme ai rapimenti finiti male fanno rabbrividire. Nel 2018 le vittime, tra civili, poliziotti e narcos, sono state 33mila, fino al 31 dicembre scorso 35mila. Soltanto il giorno di capodanno, sono morti in 74. Per la cronaca nera: un morto per violenza ogni 28 minuti.
La fornace, insaziabile, che si nutre di vite umane, producendo sangue e violenze nel Messico del XXI secolo, è la guerra tra narcotrafficanti. Un’azienda che fattura ogni anno quasi 50 miliardi di dollari. Una fornace che sembra impossibile da spegnere, il cui business tiene in vita le regioni messicane più misere, elargisce lavoro ed elemosina a poveri contadini primi pretoriani a difesa dei narcos -, corrompe i politici e le forze dell’ordine. E soddisfa il feroce e inarrestabile appetito mondiale per le sostanze psicotrope. Soltanto dal 1997 si tiene la macabra contabilità dei morti per violenza in Messico, ma sappiamo che è stato sempre un crescendo, da quando la Colombia, con la morte di Pablo Escobar, ha ceduto lo scettro del dominio ai cinque carteles messicani, più los Zetas (i più efferati e potenti), los Negros e la Familia Michoacana.
Il nuovo funesto primato contraddice le affermazioni del presidente messicano, Andrés Manuel López Obrador, eletto a fine 2018 per la sinistra (Mora), secondo cui gli omicidi non sarebbero aumentati durante la sua presidenza. Ma quel 9,6% in più non è un’opinione, anche se Obrador incolpa chi l’ha preceduto e così si giustifica: «Ho proposto una riforma della costituzione in modo che l’Esercito e la Marina possano aiutarci». Il Presidente del Messico ha difeso la creazione di una Guardia Nazionale, una forza strategia per combattere l’ondata di violenza che ha travolto il Paese da quando, nel 2006, il Governo di Città del Messico ha apertamente dichiarato guerra ai cartelli della droga. Dall’inizio della narco-guerra a oggi sono morte, tra narcotrafficanti, poliziotti e militari, oltre 250mila persone. Una guerra che non ha nemmeno scalfito l’armata dei cartelli, producendo, però, devastanti danni collaterali. Il precedente presidente, Enrique Peña Nieto ha cacciato i corrotti dalla Policia Federal e ha chiesto aiuto ai militari statunitensi per fermare il flusso d’armi che entra in Messico e alimenta la guerra dei narcos. Il «rosso» Obrador oggi ha fatto ben poco. Gli stati messicani che hanno registrato il maggior numero di omicidi nell’ultimo giorno del 2019 sono: Zacatecas con 21 morti, Michoacán, 12 e Guanajuato, 7. Regioni controllate dai Sinaloa.
Il Messico ha anche un altro macabro nomignolo, non è un paese per bambini né per donne. Secondo il rapporto «Infanzia e adolescenza dell’Unesco» dal 2000 alla fine del 2019, 21mila bambini hanno perso la vita per violenze, mentre 7mila sono scomparsi nel nulla. Un recente studio dell’Osservatore Romano, inoltre, denuncia che da gennaio 2015 a luglio 2019 ci sono 3.297 femminicidi, di questi 317 hanno coinvolto minori. E se nel 2012 gli stati più violenti sono stati quelli della frontiera, Sonora, Coahuila e Nuevo León, dal 2018 la violenta guerra tra i cartelli si è concentrata a Chihuahua, territorio del cartello dei Sinaloa, acerrimi nemici dei los Zetas. Joaquín Archivaldo Guzmán Loera, detto El Chapo, «il tappo», o «El Rápido», capo del cartello, era il più rispettato e temuto signore della droga messicano, con un patrimonio personale di 14 miliardi di dollari. La sua cattura nel 2016 non ha nemmeno indebolito il sistema. Poche ore dopo, c’era già il suo sostituto: Nemesio Oseguera Cervantes, detto El Mencho, «lo sbirro», ex poliziotto antidroga passato dall’altra parte. Più giovane e affamato.