Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  gennaio 26 Domenica calendario

Anastasi, un addio con doppio errore

Vergogna. Ai funerali di Anastasi l’ha detto Claudio Gentile, uno che non s’è mai nascosto dietro a un dito. L’ha detto anche Gianluca, figlio di Pietro. C’erano tanti ex calciatori ai funerali, da Mazzola a Zoff, e tutti hanno parlato bene di Pietro. Anche perché era impossibile parlarne male. In campo dava tutto e fuori campo era il classico pezzo di pane: mai invidioso, leale, generoso, sincero, disponibile con tutti (perfino con i giornalisti, ci tengo a dirlo). È morto di Sla nella tarda serata di venerdì decidendo lui che era giunto il momento della definitiva sedazione. Juve e Inter, le due squadre principali di una luminosa carriera, si sono mosse in autonomia per ricordarlo come si meritava: minuto di raccoglimento, immagini sul maxischermo. Su tutti gli altri campi d’Italia, nulla.
Qui sta la vergogna. Nella mancanza di un atto dovuto, e non perché anche grazie ai gol di Anastasi l’Italia aveva vinto l’unico titolo europeo della sua storia ma perché Anastasi è stato Anastasi, un atleta esemplare. Non rendergli l’omaggio dovuto, l’addio che meritava, è stata una mancanza umana prima ancora che sportiva. Doppiamente grave.
Vergogna è una parola che faccio fatica a usare. Forse perché penso che anche vergognarsi richieda una sensibilità. Non si vergognerà mai chi ha scritto Juden hier sulla porta di una casa di Mondovì. Sapeva quel che faceva. Voleva farlo. Ne andrà fiero. E poco gli importa se in quella casa non avevano abitato ebrei ma una donna coraggiosa, una partigiana torturata e internata e poi pronta a dare testimonianza sugli orrori che aveva attraversato. Di sfuggita, per queste cose sì che serve molto coraggio, non certo per spruzzare spray nero sulle porte di Mondovì, come pantegane notturne. Sempre di sfuggita, visto che a Repubblica in passato non ho risparmiato qualche 4 e forse anche un 2, stavolta 8,5 alla prima pagina di ieri, alla grande foto sul ritorno strisciante dell’orrore, all’evidenza. Mentre, ma forse è solo una mia impressione, molti altri quotidiani hanno scelto di stare bassi, di buttare la polvere sotto il tappeto.
Teniamoci per mano in questi giorni tristi, come nella canzone di Fausto Amodei. Bisogna evitare che vento nuovo (per modo dire, nuovo) ci riporti in un posto orrendo, di cui ingenuamente credevamo impossibile il ritorno: l’inferno.
V ergogna è quindi una parola che non userò, per la vicenda di Anastasi. Ma a Lega e Federcalcio mando uno 0,5 da dividere fra loro. Preciso che qui per Lega s’intende quella del calcio di serie A. Sull’altra, si può dire che Salvini si sta attrezzando per i miracoli: ha trasformato un citofono in un megafono. Ma questo non riguarda il nostro orticello. Alla presidenza di Lega è arrivato da poco Paolo Dal Pino, che lo fa notare alla Gazzetta e poi dice che occorre più comunicazione. Vero, ma qualcuno gli dica che non si usano più i colombi viaggiatori e che la telefonia mobile fa sempre comodo. Se a questo punto ricordo la morte improvvisa di Astori, in un albergo di Udine, a metà di una mattina di domenica, non è per contrapporre un morto a un morto, questo mai. Astori è stato a sua volta un calciatore esemplare, un buon capitano, e nel suo caso, proprio perché comunicazione tempestiva ci fu, l’addio collettivo nei nostri stadi fu giusto, partecipato, toccante, a nord come a sud. Allora, se ricordo bene, la prima mossa non la fece la Lega, né la Federcalcio, ma il presidente del Coni Malagò. In un recupero di sensibilità, in occasione della Giornata della Memoria, la Lega oggi regala agli allenatori di A “L’allenatore ad Auschwitz”, di Giovanni Cerutti, che ripercorre la storia di Arpad Weisz a distanza di qualche anno dal libro di Matteo Marani che aveva alzato il sipario sull’inferno.
A ngolo della poesia. In napoletano, “’A luna” di Achille Serrao. “Cu ‘ a capa aizata/ pecché hanno a essere liégge ‘e penziere, /aret’e ccose che na vota/ nce secutavano…accussì accumencia ‘a jurnata/janca ‘na petaccella ‘e bannéra/’o scennere e ‘o saglì n’addore d’acqua/venuto ‘a chissaddò. Partèttemo pecchésto/ aret’e ccose cu nu traìno sbalestrato,/ cantanno a vocca ‘nchiusa comm’a ddinto/’e ccanzone ca schiattano ‘ncuorpo/ pàtemo ‘nnante e ll’ate’e nuje arreto/ smiccianno ‘a strata e chiù ddoppo/’a chieia d’ ‘o sole, o scuorno/ d’ ‘o sole e ‘o pedecino/addò nu muschiglione sesca ‘a nonna/ ‘e nisciuno…Tanno dicette pàtemo Arrevammo/’nni llà e mmustaje ‘a luna”. Traduzione: “A testa alta perché siano leggeri i pensieri,/dietro le cose che una volta ci seguivano…così inizia il giorno/bianco un brandello di bandiera/lo scendere e il salire un odore di pioggia/arrivato da chissà dove. Partimmo per questo/dietro alle cose con un carretto zoppo/cantando a bocca chiusa come/nelle canzoni che gonfiano di malinconia/mio padre avanti e noialtri dietro/sbirciando la strada e più oltre/la curva del sole il rossore/del sole e lo stelo/dove un moscone ronza la ninnananna/ di nessuno…Fu allora che mio padre disse Arriviamo/fin là, e indicò la luna”.