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 2020  gennaio 26 Domenica calendario

Una notte tra i clochard di San Pietro

CITTà DEL VATICANO — I senzatetto del Colonnato si sentono protetti in San Pietro, ai tempi di Bergoglio. Di giorno hanno barbiere e cambio panni, la sera, dopo aver ricevuto panini e tè caldo dai volontari di Sant’Egidio, si spostano pochi metri, verso la Conciliazione, e stendono i sacchi a pelo. S’avvolgono, poggiano la testa sulla valigia e chiudono gli occhi. La polizia, in Piazza San Pietro con il lampeggiante della volante sempre acceso, è una veglia non un disturbo. «A Termini rischi le coltellate o lo sgombero». Al Vaticano dormi fino a quando non si alza il sole. Lo racconta Salvatore, 56 anni, fuggito da Bari centro.
Giovedì sera, le 21, cinque gradi e un po’ di vento. Con il primo mattino si scenderà a due gradi. Trentuno senzatetto si accasano sui marmi. Sei davanti alla chiesa di Santa Maria in Traspontina, gli altri sui verticali del Colonnato del Bernini. Gli italiani a sinistra, i russi e gli ucraini a destra. A destra hanno bevuto. Non era tè caldo, e le voci si fanno urla. Idris, marocchino che parla un italiano preciso, neppure ci fa caso. Ogni sera s’addormenta leggendo il Corriere dello Sport, il calciomercato. «Vivo in Italia da tanto tempo e sono interista. Ora, scusa, voglio sapere se arriva quello forte dal Tottenham».
Sul lato vociante una signora vestita da teatro, cappotto bianco, cappello bianco, ha appena ritirato i bicchieri caldi. Comunità di Sant’Egidio. Racconta che vengono qui ogni giovedì e che i clochard, negli ultimi sette anni, sono cresciuti. Stagione dopo stagione, a partire dall’elezione di Papa Francesco. Chi non entra al terzo e al quarto piano di Palazzo Migliori, residenza nobile aperta agli invisibili lo scorso 19 novembre, s’accomoda sotto il Colonnato. Ce ne stanno cinquanta, nelle stanze calde. Dovesse nevicare, ci si stringerà tutti al palazzo nobile.
Gli occhi che si vedono sotto i cappelli e sopra le sciarpe spiegano che, sì, queste donne e questi uomini hanno paura a parlare. «La domanda è troppo intima». Dicono così, e abbassano gli occhi. Salvatore, invece, ha una voglia di raccontare che gli esce dal corpo: «Mi sono separato quindici anni anni fa, mia figlia ne aveva tre. Non l’ho più vista». Non ha la forza di dire che il suo sogno è proprio quello, riabbracciarla: «La mia fantasia è quella di costruire un’azienda che dia lavoro a quelli che un lavoro non ce l’hanno». Come lui, ecco. Il ricordo parte e approda sempre lì, però, la figlia Marianna. «I miei genitori sono morti che avevo otto anni, un incidente stradale. Mi ha cresciuto la nonna, poi gli zii. La nonna ha vissuto fino a 103 anni. Sì, mi hanno mandato a scuola. le medie, poi un istituto tecnico. Mi sono diplomato e sono diventato un tuttofare. Lavori pesanti, nei cantieri.
Poi ho costruito roulotte, scaricato cassette ai mercati generali e ho fatto il cuoco. Mi sono sposato, ma è durata poco. Tutto quello che avevo l’ho lasciato a lei, a Marianna. Io me ne sono andato da casa e pure da Bari. Ho smesso di lavorare allora, ma mia figlia aveva quello che le serviva per crescere ». Salvatore non sa se Marianna va ancora a scuola, «credo di sì». Non sa se la rivedrà, «se lei sente il bisogno, basta che chieda a mio fratello. Ha l’auto, sa dove vivo e può portarla a Roma». Non possiede un telefonino, Salvatore. Non ha un euro. «Qui mi danno cappuccino e cornetto la mattina, non ho bisogno di nulla. So aspettare, arriverà anche il momento in cui farò i soldi». Già, lo sconforto è subito dietro il sogno: «La vita è troppo lunga, queste fatiche sembrano non finire mai».
A fianco di Salvatore una coppia gioca a carte, lui italiano, lei romena: «Non li disturbare, sono aggressivi». Una mano esce dal cartonato alzato con la precisione del capomastro, prende il bicchiere del tè. Si vede solo la mano.
Sotto il colonnato alcuni sono stravaganti e dolci. Una donna ungherese con un cappello grigio chiede una sigaretta e spiega che i gabbiani di San Pietro parlano cinque lingue, anche la sua. Ci sono quelli ossessivi. Una giovane e bella tedesca, si definisce medico dei diritti civili e si sistema di fronte al Palazzo apostolico, racconta una storia di deportazione di adolescenti dall’Inghilterra all’Australia: «È avvenuta sotto Gordon Brown, nessuno racconta nulla. Io ho perso mio figlio. Aveva sedici anni, la polizia è venuta a prenderlo alle otto e venti di mattina e non l’ho più visto».
I gabbiani volano lenti a cinque metri d’altezza e sotto Galleria Savelli – articoli religiosi e rosari benedetti – si trova Michele, 50 anni, polacco di Resovia. Tre bambini. «Mia moglie mi ha tradito e l’ho lasciata». Ha lavorato quattro mesi a Castellamare di Stabia: dodici ore al giorno, dice, per 35 euro. Ottocento al mese, in nero: «Pulivo il grande giardino del ristorante, alberi e piante, poi la sera passavo alla cucina». Quattro mesi nella stagione migliore, ora sotto i portici di Piazza Pio XII: «Aspetto che mi richiami». Spegne la cassa, di quelle che usano gli adolescenti. Amplificava Eros Ramazzotti.«Qui non ho paura, ora che c’è Bergoglio posso venire e andare via», dice Charlie, boliviano con moglie e figli in Spagna, maglietta di Superman. «Lei, però, non guarda i bambini e io, allora, vado in giro per il mondo. Ho fatto un pellegrinaggio a Roma, una vacanza».