Corriere della Sera, 26 gennaio 2020
Giulio Regeni, quattro anni di silenzi e depistaggi
Il 25 gennaio 2016, quando Giulio sparì, gli agenti della sicurezza egiziana che lo seguivano pensavano che dovesse incontrare «una persona sospetta». È il motivo per cui decisero di sequestrarlo quella sera, lo caricarono in macchina e lo picchiarono subito al volto. Così ha detto uno degli ufficiali della National security inquisiti dalla Procura di Roma per il rapimento, secondo quanto riferito da un testimone kenyota che ha ascoltato il suo racconto durante una riunione di poliziotti. È l’ultima acquisizione della magistratura italiana che dallo scorso aprile attende risposte dal Cairo per trovare i necessari riscontri. Ma non arrivano. Quattro anni dopo, siamo fermi al silenzio egiziano. E al ricordo di Paola e Claudio Regeni della notizia che ha sconvolto la loro vita.
«Il 27 gennaio alle 14,30 ero a lavorare nel mio ufficio di casa, quando ho ricevuto una telefonata dalla console dal Cairo che mi informava che Giulio non era arrivato a un appuntamento la sera del 25, e che non si sapeva dove fosse in quel momento», rammenta il padre. Sua moglie non c’era, la chiamò senza dirle della telefonata. Aspettò che rientrasse, le chiese di sedersi, lei non voleva ma lui insisté. Poi le riferì l’informazione appena ricevuta. «Ricordo di aver chiuso gli occhi e di aver visto un’immagine: un cassonetto dell’immondizia e, a fianco di quel cassonetto, buttato per terra, Giulio. Gli ho detto: ce lo butteranno così», scrive Paola Regeni nel libro Giulio fa cose, composto insieme al marito e all’avvocata Alessandra Ballerini, appena pubblicato da Feltrinelli.
È un diario di viaggio nel dolore di questi quattro anni e alla ricerca della verità, che dietro ogni curva trova un muro. Nonostante le promesse dell’ambasciatore del Cairo in Italia, a nome del governo di Al Sisi, che accolse la famiglia e la salma di Giulio a Roma: «Ci ha dato il suo biglietto da visita, per contattarlo in caso di necessità. Stava iniziando la farsa egiziana, ma ancora non lo potevamo immaginare. Per i quattro anni successivi hanno continuato a ripetere che volevano collaborare, ma a oggi non fanno che occultare la verità e negare giustizia». Per questo la famiglia e l’avvocata Ballerini continuano a invocare un nuovo richiamo dell’ambasciatore italiano in Egitto che però, in un momento di così alta tensione in Medio Oriente, sembra molto improbabile.
La visione di Paola Regeni quando seppe che il figlio era scomparso non era distante da ciò che sarebbe avvenuto; invece che in un cassonetto il cadavere di Giulio riapparve il 3 febbraio tra le sterpaglie che costeggiano la strada verso Alessandria d’Egitto, con i segni di torture inflitte a più riprese e per diversi giorni. Finché gli fu «rotto l’osso del collo», come hanno illustrato con fredda ma efficace precisione il procuratore reggente di Roma Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco alla commissione parlamentare d’inchiesta.
I pm della Capitale, nell’indagine parallela a quella un po’ evanescente della Procura generale del Cairo, hanno raggiunto attraverso un certosino lavoro diplomatico-investigativo-giudiziario, la ragionevole certezza del coinvolgimento di cinque funzionari della sicurezza locale: il generale Sabir Tareq, il colonnello Uhsam Helmy, il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, l’assistente Mahmoud Najem e il colonnello Ather Hamal. Tutti artefici, a vario titolo, della «ragnatela in cui è caduto Giulio», costruita con la complicità di alcuni amici che tradirono la fiducia del giovane ricercatore, e nei successivi depistaggi: il coinquilino Mohamed El Sayad, che prima e durante il sequestro ebbe almeno otto contatti con la Ns; l’amica Noura Wahby, che riferiva tutto a un informatore della Ns; il sindacalista Mohamed Abdallah, a diretto contatto con Sharif.
Sono loro, gli agenti coinvolti nella trama, che potrebbero raccontare perché sospettavano di Regeni e che cosa è accaduto dopo il suo arresto, ma dal Cairo non sono arrivati nemmeno i dati per le notifiche dell’indagine italiana. Così come dall’università di Cambridge, per la quale Giulio stava svolgendo le ricerche «sul campo» sui sindacati autonomi egiziani, non c’è stata la collaborazione che la Procura di Roma e la famiglia Regeni si attendevano. «Noi sappiamo che non sono stati i docenti, l’università, a uccidere Giulio – scrivono nel libro i genitori del ragazzo —. Di sicuro però ci sono delle responsabilità morali e civili».