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 2020  gennaio 26 Domenica calendario

Il modello delle donne leader

Dal 1993 l’India applica quote di genere nelle elezioni dei consigli di villaggio, con il risultato che la percentuale di donne fra i capi-villaggio è cresciuta rapidamente: da meno del 5% a più del 40%. Nel Bengala Occidentale le quote sono applicate stabilendo che un terzo (scelto a caso) di tutti i villaggi abbia un capo-villaggio donna. Esther Duflo, l’economista francese che lo scorso ottobre ha ricevuto il premio Nobel, ha studiato le differenze fra i villaggi bengalesi in cui il capo villaggio è una donna e quelli in cui è un uomo, scoprendo un fatto sorprendente. Nei villaggi amministrati da una donna, il divario di genere nelle aspirazioni degli adolescenti di età compresa tra 11 e 15 anni è scomparso. Cioè, dopo aver vissuto per un po’ di anni con un capo-villaggio donna, le bambine, e i loro genitori, che prima pensavano di abbandonare la scuola a 15 anni, ora avevano le stesse aspirazioni dei maschi, cioè avrebbero continuato a studiare oltre i 15 anni. E le aspirazioni si traducono in risultati. Ad esempio, una volta adulti, il divario fra maschi e femmine nella capacità di leggere e scrivere scompariva. Vivere in un villaggio amministrato da una donna cambiava anche la vita quotidiana delle ragazze: nei villaggi che non hanno mai avuto leader femminili, le ragazze in genere trascorrono 79 minuti in più al giorno rispetto ai maschi nelle faccende domestiche. 
Nei villaggi in cui le donne sono state capo-villaggio per almeno due volte, questa disparità si riduce di 18 minuti. Esther Duflo pensa che questo cambiamento nelle aspirazioni e nei comportamenti sia dovuto a un effetto «modello»: vedere donne al comando ha persuaso gli adolescenti e i loro genitori che le donne possono amministrare non solo la loro casa ma anche il villaggio, e spesso meglio degli uomini. Questa esperienza ha reso le ragazze più ambiziose, convincendole che anche loro, se studiano, potranno avere un impatto sul mondo.
L’importanza di essere esposti a un «modello» si ritrova anche in altri esperimenti. Ad esempio, se in un villaggio c’è un ragazzo o una ragazza che eccelle in uno sport, vincendo gare in luoghi lontani dal villaggio, le aspirazioni di tutti i ragazzi del villaggio cambiano, e con le aspirazioni il loro impegno negli allenamenti e quindi anche i loro risultati. La differenza è che mentre in questo caso le aspirazioni dipendono da un fatto accidentale (la nascita di un ragazzo o una ragazza con particolari attitudini sportive) il modello delle donne al comando può essere guidato introducendo le quote di genere, come è stato fatto in Bengala. 
Ma l’esposizione a un «modello» può funzionare anche in società avanzate? Per le donne certamente sì, come insegnano varie regole volte a introdurre la parità di genere. Ma può funzionare anche in ambiti diversi, ad esempio esponendo un imprenditore all’esperienza di altri che sono riusciti a rompere un tabù.
Pensiamo al nostro Mezzogiorno. Supporre che quella parte del Paese possa crescere «per contaminazione» dalle zone più avanzate dell’Italia (ad esempio importando il «modello di Milano» come qualcuno suggerisce) è evidentemente un’illusione. Una società cresce se ha l’incentivo per farlo, non perché ha importato un modello dall’esterno. In Bengala le adolescenti, e i loro genitori, decidevano di continuare a studiare perché, osservando una donna a capo del villaggio, era cambiata la loro percezione sul ruolo e le capacità delle donne. Affinché una cosa analoga accada nel Mezzogiorno sono quindi necessari dei modelli «locali»: un’università che eccelle, un’azienda che vince sui mercati internazionali, etc. 
Fortunatamente modelli di eccellenza nel Mezzogiorno esistono, più di quanto non si pensi. Ad esempio ricercatori dell’università Federico II di Napoli hanno vinto, negli ultimi anni, 16 finanziamenti dell’European Research Council, l’ente europeo oggi più prestigioso e rigoroso nel selezionare e finanziare progetti di ricerca. I progetti finanziati a Napoli (con contributi significativi, 1-2 milioni di euro ciascuno) spaziano dalla geometria, all’immunologia, all’astrofisica, alla storia moderna e la papirologia.
Apple nel 2016 ha aperto a Napoli, in collaborazione con la Federico II, una Developers Academy (la seconda al mondo dopo la sede di Cupertino in California) dove vengono formati sviluppatori di app. A Cosenza, sempre in collaborazione con l’università, si è sviluppato un distretto industriale sulla sicurezza informatica dove si applicano alla cybersecurity tecniche di blockchain e intelligenza artificiale. Sempre a Cosenza Ntt, la grande multinazionale giapponese, ha installato uno dei suoi tre centri di ricerca in Data Science, gli altri sono a Tokyo e in California. Nel distretto aerospaziale pugliese operano, fra Bari e Lecce, una trentina di aziende e centri di ricerca con un totale di circa 6.000 addetti. In Sicilia, a Sciacca e a Palermo, Rocco Forte gestisce due alberghi. Sono così belli che i fondatori di Google, Larry Page e Sergey Brin, organizzano da alcuni anni, in quello di Sciacca, il Google Camp, appuntamento estivo dei Ceo delle maggiori aziende tecnologiche al mondo.
È da questi semi di eccellenza che può ripartire il Mezzogiorno. Ci sono poche cose che lo Stato deve fare e due che non deve fare per consentire a questo modello di diffondersi. Innanzitutto deve far sentire la propria presenza, evitando che provincie intere siano di fatto fuori dal controllo dello Stato: il distretto della cybersecurity di Cosenza è un buon segnale. E poi deve consentire alle persone di condurre una vita normale, che vuol dire trasporti, scuole e ospedali. Ciò che invece lo Stato non deve fare è sostituirsi alle imprese illudendosi di essere più bravo di loro. Né, ancor peggio, inondarle di sussidi che puntualmente finiscono non alle imprese più promettenti, che non ne hanno bisogno, ma a quelle inefficienti o addirittura illegali, che li usano per far concorrenza sleale alle prime.